martedì 9 ottobre 2012

Su Tokyo e sull'Italia (di getto, e riflettuto)

Su Tokyo e sull'Italia (di getto, e riflettuto)

La cosa che m'ha sempre terrorizzato di Tokyo (che ho realizzato soltanto dopo essere tornato da un breve soggiorno in Italia) è la sua mancanza di tempo.

Non di un tempo materiale (se un tempo materiale possa mai esistere), ma la totale privazione di riferimenti passati e futuri. In un città dove tutti si legano l'orologio al polso e l'arrivo di ogni treno è regolato al secondo (mai sperare nei ritardi, a Tokyo), c'è un solo tempo valido sempre, che pende come un imperativo sulle nostre teste: il presente.
In un'Italia come quella di oggi, quella che si legge sui giornali almeno, il futuro è una cosa difficile da dire. L'italiano, quello buono (e sono pochi) è intelligente e passionale, dategli un'idea, rendetela ideale e dedizione; solleverà il mondo, lo scaraventerà oltre la crisi, le olgette, le partite di pallone.
Salterà come un grillo superando tutto e portandoci con lui.
Qui ci invidiano per Leonardo, Rossini, Caravaggio, ma ai tempi non ero nemmeno un prototipo di vita per i miei genitori, e in tempi più recenti ho piacere, e traggo forza, a ricordare Fellini, Pasolini, Giolitti, Falcone e Borsellino.
Persone che avevano tratto l'ideale da un'idea.
Però persone così nascono a caso, non c'entrano i tempi, le guerre, i natali, Berlusconi; o meglio, c'entra tutto e non c'entra niente, è un'insieme di coincidenze estremamente fortunate. Quello che sarà di noi (voi?) non si può predire.
Il futuro di Tokyo invece lo vedo chiaro e netto ogni volta che guarda i tabelloni luminosi di Shibuya, l'incrocio più famoso al mondo, acceso 24h su 24.

E' un presente stirato all'indietro e dilaniato in avanti, senza fine.

Questo posto non ha storia, è giovane, giovane come un diciottenne che brucia dentro, e brucia chi è accanto a lui perché è forte, e bello, e non vede il limite delle sue reali possibilità. Tokyo s'è bruciata, e sta bruciando, per potenza e strafottenza.
E' un'isola nell'isola. Un vampiro che si nutre dei suoi abitanti, altri vampiri (più deboli e inconsapevoli) che si nutrono di lei.
Chiedetelo ai gaijin (stranieri) che abitano qui, a chi prova a campare davvero con le proprie sole forze, che discorso assurdo sia la programmazione del futuro prossimo, del giorno dopo, della serata; ciò che conta è il presente.
Chiedetelo ai salary man ( impiegati), cuochi, insegnanti, avvolti da giorni tutti uguali, dissolti e disintegrati in una ripetività che porta ad amanti, prostitute, suicidi, e a volte, a prospettive che ti cambiano la vita.
La grandezza  di Tokyo si erge sullo stoicismo di chi la vive, e il benessere di chi la abita sulla città stessa.

Che non pensa, non incontra, non crea niente, se non per l'ora, l'adesso immantinente.
Tokyo, come le formiche, non dorme mai.




venerdì 17 agosto 2012

Un nuovo motivo-Cap V- (FINE)

Capitolo finito. Un nuovo personaggio (molto particolare). Ora inizia il bello.
E' passato un po' di tempo dall'ultimo post.
Ci metto quello che mi serve, ma non smetto.
Non smetterò mai, credo.

Un nuovo motivo -CapV -FINE



C'era qualcosa negli occhi di quell'uomo che turbò tutti e tre lasciandoli senza una parola buona con la quale rispondergli.
Era la posa, la garza sporca, la barba incolta, ma erano gli occhi, gli occhi sopra ogni cosa. Erano verde chiaro, ma in qualche modo «spenti», come se qualcuno gli avesse invertito l'interruttore e invece di riflettere la luce, la assorbissero.
Più che spenti sembravano proprio funzionare al contrario.
Ebbero la sensazione condivisa di venire risucchiati assieme al giorno, e alla stanza, a Stefano e tutto il vuoto che li circondava.
Erano gli occhi di un uomo che non aveva nulla da perdere, non gli importava di perderlo, e comunque se l'avesse fatto avrebbe attratto e portato con lui quanto più possibile di quello che aveva intorno.
«Vabbè, se avete finito di guardarvi l'uno con l'altro come tre ebeti, decidetevi a dirmi se si va, o se volete rimanere a guardare il vostro amico fino a quando non crepa o non si sveglia. Per me non cambia niente, so io che vi starei a fa un favore» sembrava non emanare nessuna emozione mentre lo diceva.
Luna gli si avvicinò, erano petto a petto, lo guardava da venti centimetri più in basso, ma dalla sua aveva così tanta forza e tempo perso che riuscì a rimandare indietro tutto il vuoto che partiva da Remo.
«Va bene verme. Vuoi provare a fare il buon samaritano, a mettere una pezza a tutte le infamate che devi aver fatto nella tua vita con un grande gesto? Dammi le chiavi della macchina, il portafogli, il telefono, tutto. Sia chiaro da subito: non sei tu che fai un piacere a me, sono io che lo faccio a te. Se non ti sta bene fatti arrestare subito, sarebbe quello che ti meriti».
Remo sbuffò e rise di gusto «Ahahah brava, si vede che anche tu non hai niente da perdere, brava davvero, lo spirito è quello giusto. Ho tutto in stanza, mi cambio e te lo porto», detto questo uscì scomparendo così come era entrato.
Durante l'assenza Antonello provò a dissuadere Luna «A Lù ma che stai a fa? Te sei impazzita? Quello è matto, è pericoloso! Che ne sai che può fare quando state da soli?! Io non sto tranquillo».
Il Bianco stava in silenzio a guardare Stefano, non ascoltava, assente.
«Se non stai tranquillo ti potevi far sentire durante quest'anno» gridò incazzata «invece di fare la parte dell'amico ferito e abbandonato. Oppure mi vuoi dare il tuo motorino subito, eh, che dici?».
In quel momento tornò Remo, indossava un paio di jeans larghi e una camicia a righe marrone aperta fino al petto che lasciava intravedere una catena con un grosso crocefisso d'oro, delle infradito ai piedi.
«Bè, che si fa? Si va?»
«Certo che si va. Dammi le chiavi, t'ho detto che guido io. E voi due badate a Stefano e non fate danni. Dovete fare solo quello che vi riesce meglio: niente.
Il primo che ha una novità aggiorna l'altro...
Scusate se sono così dura, ma è un momento difficile... Mi ha fatto davvero piacere rivedervi. A Presto»
Un attimo dopo erano dentro l'Alfa 167 verde smeraldo con gli interni in pelle di Remo, Luna mise in moto ed il motore rombò con un rumore potente ed anni ottanta.
«Guarda che c'ho pure il navigatore, visto che sai l'indirizzo ci dovremmo mettere un'attimo»
«Stai zitto. Non mi pare di averti detto che potevi parlare... Ma come diavolo si mette la prima...»
«Se spingi leggera la frizione e...»
«Zitto t'ho detto! Devo prima passare a casa mia, e di Stefano»
Luna percorse le poche centinaia di metri che separavano il policlinico da casa sua a grande velocità. Fino a quel momento aveva sempre avuto paura di guidare per Roma; ne aveva avuto poche occasioni ed inoltre le mancavano parecchi gradi a tutti e due gli occhi, tant'è che anche con le lenti a contatto aveva serie difficoltà a leggere i tabelloni con gli orari dei treni (un paio di volte le era capitato di perderli per questo motivo). Eppure arrivò di fronte al cancello di ferro di casa sua inchiodando di botto di fronte alla pensilina del bus 492, ostruendone il passaggio. Tolse le chiavi dal quadro, si lanciò fuori, lasciò Remo a cuocersi al sole come un cane lasciato in macchina dai padroni ed ignorò del tutto il portiere che cercava di salutarla con falsa giovialità. Tornò veloce così come era andata, portando con se una specie di trasportino coperto da un telo bianco. Lo pose con cura sul sedile posteriore bloccandolo con le cinture di sicurezza e ripartì sgommando dopo aver inserito l'indirizzo di destinazione nel navigatore.
Un paio di chilometri dopo avere imboccato la tangenziale, Remo provò a dire «E in quella gabbia cosa ci sarebbe? Il tuo gatto non poteva fare a meno di te per un giorno?»
«Perchè?» rispose pungente Luna «vorresti macinare pure lui?»
«Non dirlo nemmeno per scherzo. I gatti per me sono importanti, sacri»
«Ma smettila» sbuffò sarcastica «non credo che una persona come te conosca davvero il significato di 'sacro', di qualcosa da proteggere con tutto il cuore.
E comunque non è mio. L'ho trovato, trovata, vicino a Stefano sul luogo dell'incidente. Se riesci a trattenere i tuoi istinti omicidi puoi togliere il telo e guardare».
Remo si voltò e scansò il telo pieno di curiosità, come un bambino che abbia ricevuto il pacchetto misterioso di un regalo inaspettato.
Dal profondo di due occhi piccolissimi e perfettamente tranquilli, una gallina lo guardava non tradendo il benché minimo gesto di nervosismo, pareva quasi se lo aspettasse.
Remo rimase a guardarla ipnotizzato sei o sette secondi, poi tornò a sedersi sul sedile anteriore, rimase perplesso, si girò di nuovo spostando nuovamente il telo, l'animale era sempre lì, lo fissava. Si girò a guardare dritto il panorama davanti a se per qualche altro secondo, poi guardò Luna, si voltò di nuovo verso la gabbia, poi di nuovo verso Luna e poi dritto. Era senza parole, come un bambino che scartato il regalo misterioso non sia riuscito a capire bene che razza di oggetto abbia ricevuto.
«Ma è davvero...», Luna lo interruppe;
«Certo che è una gallina. Non so che ci facesse Stefano. Stava vicino a lui senza muoversi quando sono arrivata all'incrocio dell'incidente. Ma è certo che se aveva solo lei con se deve essere importante. Può essere utile capire da dove viene. A casa non ce la lascio. E comunque non chiamarla 'gallina', ha una targhetta con un nome suo al collo... 'Nana'»
Remo si limitò a ripetere imbambolato «Nana... ho capito».
Stettero in silenzio da quel momento, Luna guidò nervosa fino a quando il navigatore non iniziò a dirottarli chilometri dopo, per stradine di campagna cominciando a ripetere senza fine «Ricalcolo, ricalcolo, ricalcolo».
Remo staccò con rabbia il navigatore e lo buttò dal finestrino «Tanto da qui in poi è inutile, l'aveva detto il tuo amico».
Luna chiese a chiunque incontrava per le vie sterrate e semi deserte come si arrivasse a Via di Campo Verde a Roccacencia ; bambini in calzoncini corti con bastoni fra le mani, un contadino rugoso in trattore, due vecchie con uno scialle nero in testa e buste piene di ortiche.
Quando finalmente riuscirono a trovare la via, scritta a mano su un cartello di legno, erano ormai le undici di sera passate. Eppure nel buio assoluto, senza un lampione della campagna, gli sembrò di vedere una grande quantità di luci e di sentire un frastuono incredibile, proprio lì vicino a loro.

mercoledì 18 luglio 2012

Un nuovo motivo -Cap V (continuo V)-


Quanto tempo che non aggiorno,  più di un mese. Più o meno da quando... più o meno da quel preciso momento lì... Mi mancava molto scrivere.
Mi piace tornare a parlare degli amici, del loro rapporto, di Luna. 
Forse la Luna che sto descrivendo si allontana via via da quella che conoscevo. Forse è una Luna che esiste solo nella mia testa, o in fondo a un pozzo.
Però mi piace tantissimo. Quasi quasi me ne sto innamorando.
Comunque il prossimo aggiornamento finirò il capitolo e tornerà Stefano.
Buonanotte.

Una nuova ragione -Cap V- (parte V)

Stettero tutti e tre ad osservare il loro amico, il suo amore, dormire aspettando che balzasse in piedi da un momento all'altro, e strappandosi la flebo dal braccio urlasse “Non è stato niente, tranquilli, lo sapete che faccio sempre tardi. Dai andiamo a farci un giro e a fare un po' di casino, dobbiamo recupare”. Forse mentre ripensavano alle loro vite, per un secondo, uno solo, ci credettero davvero; poi Antonello ruppe il silenzio, non ce la faceva a stare troppo tempo senza parlare, ne aveva bisogno per allontanare il vuoto del silenzio, l'onda dei pensieri che lo avrebbe travolto, ed in più sentiva davvero l'esigenza di riempiere il vuoto di quell'anno passato senza rinunciare ad aspettare.
Luna ma... in quest'anno non si è mai fatto sentire? Nemmeno un messaggio?”
No, quando se n'è andato ha lasciato tutto a casa. Cellulare, pc, nintendo, tutto. Ha preso solo il portafogli. Conoscendolo credo che anche se avesse voluto chiamarmi non ci sarebbe riuscito, non riusciva ad imparare i numeri a memoria, non sapeva nemmeno il suo. Quando qualcuno glielo chiedeva ero io a dirglielo. Senza guardare la rubrica non sapeva chiamare nemmeno i carabinieri.”
A quelle parole, la miscela di frustrazione, impotenza e malinconia che provava per il suo amico inerte, esplosero “Ma porca miseria! Quello si perdeva pure a San Lorenzo, come cavolo ha fatto a scomparire per un anno? Sta qui ed è come se non ci fosse! Mi fa scapocciare, è troppo!”.
Gli rispose il Bianco, ancora con la testa bassa, la voce flebile “Zì, guarda che se uno si vuole perdere non conta tanto se abbia senso dell'orientamento oppure no...”, detto questo tornò a guardare il letto come paralizzato; a volte la spiccata sensibilità del Bianco riusciva a sopperire in modo così semplice e geniale la mancanza di cultura che aveva per non aver mai completato le scuole superiori (naturalmente liceo artistico).
Luna si avvicinò ad Antonello, si sfiorarono leggermente
 col corpo per annullare le distanze “Credo che Lorenzo abbia ragione, ma dopo tutto pare che un indizio, volente o nolente, ce l'abbia lasciato...”. Detto questo tirò fuori dalla borsa neri coi teschi un biglietto accartocciato che le aveva dato l'infermiera che badava a Stefano prima di uscire dalla stanza.
Era grande più o meno quattro centimentri per tre, di una carta fine e mezza grigia, probabilmente riciclata, gli angoli tagliati malamente con le forbici.
Lo spiegò e lei ed Antonello lessero assieme 'Gianni, manufatterie e gioielli fatti a mano. Antincaglie, svuotamento cantine e robivecchi', sotto il disegno di un diadema e di un furgone evidentemente fatti a mano e poi fotocopiati. Non c'era il numero di telefono, solo un indirizzo: Via di campo verde (II e IV venerdì del mese), Roccacencia (Rm).
Si scambiarono uno sguardo perplesso, nessuno dei due aveva la benchè minima idea di cosa volesse dire.
Luna teneva l'insolito 'biglietto da visita' stretto tra l'indice e il pollice, nessuno dei due sapeva bene cosa dire.
Il Bianco mormorò qualcosa “... è importante...”.
I due si girarono insieme verso di lui, ma non alzò gli occhi dal letto, si limitò a ripetere la frase più chiaramente “Se aveva solo questo con sé, vuol dire che è importante. Forse è una persona che ha incontrato, una persona importante a parte noi. La dovreste cercare, credo. Di sicuro potrà dirvi qualcosa in più di quello che già sappiamo. Io lo so do'vè quel posto...”
Antonello strabuzzò gli occhi e si toccò i rasta nervoso “Scusa, e tu come fai a saperlo?”
Semplice, sono andato a farci soft-air qualche mese fa. Il paese è piccolo, saranno duecento persone, non so nemmeno se sia segnato su tutte le mappe. A sud ci sono i campi, ma a nord inizia la montagna ed è pieno di posti fichi per fare le battaglie, o una bella escursione se vi va. Comunque in paese non ci siamo fermati per niente, ci siamo passati solo con la macchina. Non è lontano da Roma, un'oretta se sai che strada prendere. Noi ci abbiamo messo di più perché ad un certo punto le indicazioni finiscono e ci siamo messi a domandare ai contadini"
Il viso di Luna si accese di una speranza violenta, scattò verso il Bianco e lo afferrò per il colletto della maglietta “Dimmi subito come cazzo ci si arriva Lorè. Voglio partire adesso!”
Lui era un ragazzo grande, forte ed in sovrappeso, ma aveva un carattere morbido; quando lei per poco non riuscì a tirarlo su si mise quasi a piangere “Si si oh te lo dico, stai calma. Ma come conti di arrivarci? Senza macchina è impossibile. La mia è dal meccanico e tu e Antonello non ce l'avete. Gli autobus naturalmente non ci passano, troppe poche persone”.
Luna mollò la maglietta del Bianco e si aggrappò con forza a quella dell'altro amico “Mi presti il tuo motorino. Non è una domanda, lo fai e basta. Se c'è riuscito lui ad arrivarci posso farlo pure io”
Oh, oh un attimo, 'spetta, mi devo organizzare! A lavoro come ci vado? E poi chi ti dice che ci sia arrivato in Vespa? Dammi qualche giorno...”
Non ce l'ho qualche giorno, cazzo! Dammi subito le chiavi del motorino!”
Ah Lù vabbè, va bene, però aspetta un attimo... non me menà,  devo vedere come fare...”
Se volete la macchina la metto volentieri io...”
La porta della stanza era aperta, da chissà quanto tempo, appoggiato allo stipite della porta in una posa fra il sofferente e la recita c'era un uomo alto e brizzolato con un pigiama ospedaliero indosso, una garza impregnata di sangue sulla mano.
E tu chi cazzo sei?” disse il Bianco, che era anche dolce, ma sempre il muratore faceva nella vita.
Gli rispose Luna con gli occhi pieni di rabbia“Questo è il bastardo che ha fatto finire Stefano sotto la macchina di quell'altra tossica”. I due amici si mossero assieme stringendosi addosso a Remo “Bene bene, guarda che bella sorpresa... Lo sai che tutta Roma sa già quello che stavi facendo nella tua 'Premiata Ditta'? Sei un uomo finito, anzi sei meno di un uomo, e qui non sei desiderato. Ma se non te ne vuoi andare a noi fa piacere, anzi, chiudi la porta, così ci facciamo un discorsetto a quattrocchi e ti spieghiamo un paio di cose della vita...”
Remo chiuse la porta, ci si appoggiò di schiena ed alzò la testa con fare provocatorio, un attimo prima che gli fossero addosso parlò, lento e con calma, scandendo bene le parole “E' inutile che cercate di fare i bulletti, non lo siete. Ho passato cose che voi nemmeno vi immaginate, e comunque dalla vita sono tornato sempre vivo, anche stavolta. Le conosco bene le persone come voi. I coglioncelli che vorrebbero prendere la vita di petto e dimostrare di essere più forte di lei. Ma tanto non lo siete e lo sapete. Non siete più forti di me. Volete verificare? Sono qui di fronte a voi...”
I due amici si fermarono intimoriti.
E comunque mi spiace davvero per il vostro amico. Ha fatto una cosa che io non avrei mai fatto. Ma non mi sento affatto in colpa come vorreste voi, è stata una sua scelta. Mi ha salvato la vita e gliene sono grato, ma nessuno gli ha chiesto niente. Inoltre non posso tornare in macelleria e vorrei evitare il più possibile di dover parlare con i carabinieri. Non c'è niente che mi trattenga qui, anzi mi sento quasi liberato senza questo dito. Se posso andare via ed al contempo essere utile a quel bravo ragazzo in coma, lo faccio volentieri. E poi non mi pare voi abbiate tanta scelta ora come ora... Oppure a questa matta glielo presti il motorino, eh rastone?”

martedì 12 giugno 2012

Un nuovo motivo -Capitolo V (Continuo IV, giusto un po') -

E' un po' che non aggiorno. La vita di Tokyo densa, e gli sforzi per lavorare e studiare, e i giorni da contare, e tempus fugit... che palle! Chi se ne frega.
Ho aggiornato, poco, ma ho aggiornato. Tre paginette.
Mi piacciono tanto. Le vorrei dedicare A Luna. Alla luna. A tutte le lune del mondo.

Anche se la Luna a me non ci pensa nemmeno un po', non importa.
Dalla mia vita in affitto a Tokyo io, penso a Lei, e mi è di ispirazione.
Divertitevi :)


Un Nuovo motivo - Capitolo V (Continuo IV, giusto un pò) -

Anche il Bianco abbozzò un sorriso, poi tornò a guardare Stefano steso sul letto con gli occhi tristi, gli angoli della bocca tesi verso il basso. Non gli riusciva mai di dissimulare la tristezza, e quando qualcosa nella vita provava a buttarlo giù, lui si faceva trascinare fino al massimo grado di apatia e demoralizzazione; di solito erano Renzo o Stefano a farlo uscire dall'apnea invitandolo a per una birra e prendendolo in giro tutto il tempo sui chili che aveva messo, o sulla testa che da quando aveva perso i capelli ed usava una lozione per lucidarla, profumava di noccioline. Luna lanciò un'occhiata rapidissima ad Antonello, questo si limitò a scuotere la testa facendole fare «no-no».
Luna non possedeva una mente fuori dall'ordinario; un'intelligenza normale, come tutti, ma la sua sensibilità era spiccata e le bastava una parola non detta per entrare in empatia con una persona e capire cosa le passasse per la testa.
Le era evidente che il Bianco non si era mai ripreso dalla scomparsa di Renzo, e che l'incidente appena capitato a Stefano doveva aver tracciato ancora più in profondità il solco dei suoi sentimenti malinconici; e capì pure che Antonello aveva fatto il possibile per colmare i vuoti del suo amico, e che aveva fallito ogni volta.
Gli avrebbe voluto dire parole di conforto: era un bravo ragazzo, e per quanto esagerato nelle sue infinite tristezze, sapeva che stava male davvero. Fece per dire qualcosa ma lui la interruppe parlando per primo «... Da quant'è che sta così?»

«Sono arrivata poco prima di voi, il medico con cui ho parlato ha detto che era già in coma quando l'hanno portato in ospedale»
«Non c'è speranza che...»
«Non lo so, non me l'hanno saputo dire, troppo presto per sciogliere la prognosi».
Il Bianco reclinò di nuovo la testa rasata e lucida verso il letto a guardare il suo amico dormire, poi sospirò «E tu da quant'è che stai così? Non ci siamo più sentiti molto da quando... insomma ha sbroccato e se n'è andato»
Lo guardò seria «Che vuoi dire?» disse, anche se in realtà aveva capito fin troppo bene le sue parole.
«Luna, da quant'è che vai in giro così? Voglio dire, da quant'è che fai la matta, l'infermiera prima ci ha raccontato... E sopratutto, perché lo fai...? Tu non sei così, eri la ragazza più normale che conoscessi e adesso... Io non ci capisco più niente. Pare che il mondo, il mio mondo stia impazzendo mentre collassa su se stesso».
Luna gli si avvicinò piano, gli prese le mani grandi e callose da muratore dentro le sue, piccole. «Lorè», non era la prima volta che lo chiamava per nome, ma la gente doveva essere tremendamente seria o arrabbiata con lui per chiamarlo così
«Lorè, lo capisco bene come ti senti, ti conosco. Sei un amico di Stefano e sei un amico mio. Ma forse tu non sai come mi sono sentita io, come è stata la vita per me da quando 'ha sbroccato' come dici tu.
Stefano con gli altri è sempre stato moderato: prendeva le parti bianche e le parti nere delle persone e le impastava fino a renderle grigie; le voleva vedere per come erano veramente, esseri fatti di pregi e di difetti, non tagliati con l'accetta. Però con se stesso non riusciva ad essere così, e se sbagliava qualcosa che sapeva di poter evitare se solo si fosse fidato un po' più di sé, si incazzava e si teneva il muso. Ultimamente gli capitava spesso.
Penso stesse riflettendo molto se quello che era fosse realmente quello che si era immaginato di diventare.
Poi c'è stato Renzo... Ed anche io ho riflettuto a lungo sul perché abbia fatto così... Ha avuto paura. Ha avuto una paura fottuta che la vita che stava vivendo sarebbe stata più forte della vita che avrebbe voluto per lui. Ha scelto la via più facile ed è scappato».
Il Bianco rimase impressionato dall'analisi: impegnato com'era a cullarsi nel pensiero cupo degli effetti della scomparsa, non si era fermato nemmeno un attimo a pensare alle cause. Le domandò, con la stessa voce perplessa di un bambino che non ha ben capito gli avvenimenti di un fatto storico «Ma se avevi capito che tutto è partito da dentro lui, allora perché...»
«Perché mi sono mascherata Lorè?» le esplose forte dallo stomaco.
«Perché comunque con lui ci abitavo io, non stava da solo. Perché il fatto che la mia presenza per lui non sia significata niente mi ha fatto stare male. Mi ha privato ogni giorno di una parte di me che sentivo mia. Mi ha fatto sentire una cretina, mi ha fatto sentire sbagliata. Mi ha fatto sentire non all'altezza, non abbastanza per sollevarlo alto dalle sue paure. E mentre lo maledivo per il suo egoismo cambiavo tutto di me, mi serviva... Avevo bisogno di questa maschera. Mi dovevo proteggere, perché anche se con la testa so darmi tutte le risposte che mi servono, ho paura ad ascoltare quello che vuole darmi il cuore...»
«E quali sarebbero?» singhiozzò piagnucolante il Bianco.
«Che anche se è uno stronzo, so che mi ama ancora. Ed anche io...»



lunedì 4 giugno 2012

Un nuovo motivo - Capitolo V (continuo III)

Oggi solo libro. 
Non ho voglia di raccontare la 'vitaccia' mia :p


Tornano un po' tutti in queste pagine.
Siamo a quota 39, quando passerò le 50 sarò sicuro di finirlo. E' una barriera psicologica più che altro.
Però, come diceva Murakami (me lo citò una mia amica) "Quando inizio un libro poi mi prende l'ansia di morire prima di finirlo, quindi scrivo con tutte le mie forze"...
Come sempre ogni commento è più che gradito :)


Capitolo V (Continuo - parte III)


La guardò per qualche secondo come in attesa di una risposta, ma dietro le ciglia appesantite dal rimmel avvertì solo un odio inaspettato.
Spostò la visuale sul suo braccio scoperto, lo fece scendere lento, si sentiva intorpidito come quando si svegliava la mattina dopo una notte di alcool e droghe. All'altezza del gomito vide due tubi di plastica che gli partivano dalle arterie, li ripercorse sino a trovare due flebo accanto al letto. Dai colori una sembrava di sali e l'altra di sangue, doveva aver subito una trasfusione.
Riprese a sondarsi da dove aveva interrotto, arrivò alla mano e poi al polso.
Aveva una garza imbrattata di sangue al posto del pollice. I ricordi di quanto accaduto tornarono in lui così inaspettati da fargli vivere in un momento tutto il dolore che doveva avere evitato grazie alla morfina dell'anestesia.
Mentre si mordeva ad occhi chiusi il labbro per non gridare gli fece male anche la guancia: uno schiaffo, un altro. La ragazza gli era arrivata sopra mettendosi cavalcioni sul letto e lo stava colpendo come una furia.
«Bastardo! Tu non sai quanto l'ho cercato, quanto l'ho aspettato! Ed ora che è tornato va a finire sotto una macchina per un bastardo, un niente come te! Ci dovevi essere tu al suo posto, tu dovevi essere in coma! Ma te la faccio pagare, ti ammazzo adesso con le mie mani!»
Remo aveva ancora in corpo gli antidolorifici dell'operazione, ciononostante riuscì a sollevare il braccio buono e a bloccare i colpi della ragazza: da quando aveva 'rilevato' la macelleria del padre si era costruito un fisico considerevole a forza di sollevare quarti di bue, e quando era stressato ci faceva anche un pò di  boxe  immaginandosi di essere Rocky.
Lei lo guardava con disprezzo, sembrava dovesse riversargli addosso tutta la rabbia che aveva accumulato fino a quel momento.
Alzò il braccio che aveva ancora libero e lo fece ricadere con tutta la propria forza sulla guancia sinistra di Remo; questo per tutta risposta non batté ciglio, si limitò a fare un movimento improvviso con le anche disarcionandola.
Finì col culo per terra, ansimante.
Remo sbottò «Ah regazzì, ma si può sapere che cazzo vuoi? Chi t'ha mai visto a te?!? Se non te levi prima de subito chiamo 'e guardie, capito?!».
Lei continuava a tenere gli occhi posati, incollati su lui con tanto di quel rancore che Remo si sentì attraversato da parte a parte dal profondo delle ciglia nerissime.
«Non ti scomodare, animale. Lo so che stavi facendo nella tua 'premiata ditta' prima dell'incidente, e lo sa pure la polizia. L'unica cosa positiva per te è che quello che ti faranno loro non sarà mai nemmeno lontanamente paragonabile a quello che ti farei io. Mi fai pena. Sei il peggior fallimento della natura, mi vergogno di appartenere alla tua stessa specie.»
Si rimise in piedi ed uscì voltandogli le spalle, Remo non riuscì a dire niente; in un minuto gli aveva rivoltato la coscienza, e lo aveva fatto così bene senza nemmeno conoscerlo che si sentì come un bambino sorpreso dai genitori a fare qualcosa che non dovrebbe.
La ragazza attraversò a lunghi passi il corridoio, prese le scale che scendevano fino al piano interrato facendosi largo in mezzo alle barelle vuote fino al reparto di terapia intensiva. All'ingresso un'infermiera bassa e tarchiata con il mento ricoperto di peluria provò a sbarrarle la strada; fece finta di non vederla e tirò dritta senza modificare l'andatura, come l'ebbe passata senza girarsi bisbigliò «Se solo provi a fermarmi ti stendo qui e adesso...».
Entrò nella stanza dov'era il ragazzo, nessuno oltre lui, solo un'altra infermiera che controllava il monitor con le sue funzioni vitali. Era molto più giovane dell'altra, sui venticinque, eppure doveva avere una sensibilità particolare perché appena la vide capì subito i suoi sentimenti «Sei la ragazza, vero?» disse «Senti, solo dieci minuti, e se succede qualcosa devi chiamarmi subito, sennò passiamo guai tutte e due capito? E levati quello sguardo da 'odio il mondo' di dosso, anche se dorme le tue emozioni le capisce le stesso... Ah e senti, in tasca aveva solo questo foglietto, niente documenti, niente soldi, niente cellulare...niente. Tienilo, magari tu sai cos'è, dopo mi spieghi però...
Il viso finalmente le se distese in un sorriso, e il verde degli iridi parve per un poco liberarsi dalla stretta del trucco, rispose solo «Grazie» a bassa voce.
Quando rimasero soli gli prese la mano e le sembrò che il loro tempo non fosse mai passato...
Pianse piano, il mascara si sciolse e si mescolò alle lacrime scendendo fino al mento; le guance, gli occhi e tutto il viso sembravano più leggeri, sfumati nero acquerello.
La porta della stanza si aprì, eppure non erano passati che pochi minuti... Sulla soglia c'erano Antonello e il Bianco con un'espressione sospesa fra il funereo e il sollevato.
Li guardò piena di sorpresa «Ma come avete fatto a...»
Antonello continuò per lei «Siamo arrivati appena saputo, l'incidente e la macelleria stanno mandando in fibrillazione tutte le comari del quartiere. E poi deve ancora nascere l'infermiera che resiste al fascino del capoccione pelato del Bianco».
Si strinsero in un abbraccio a tre.
«Ci siete mancati Lù, tutti e due» le dissero all'orecchio, «Si, anche voi» rispose.
Sciolsero l'abbraccio spontaneamente come ci si erano uniti, ma si sentivano legati da qualcosa di più profondo che dei gesti fisici.
Antonello aveva paura di parlare di Stefano: di fronte alle situazioni complicate di solito perdeva le parole e cercava di sdrammatizzare facendo il cazzone «Oh comunque non te se può vedè così, ma che hai combinato in quest'anno? Ti sei girata tutte le fiere del 'dark' d'Italia?». A Luna scappò una risate liberatoria, era felice di rivedere una parte della sua vita messa da parte da lungo tempo.

venerdì 1 giugno 2012

Un nuovo motico - Capitolo V (Continuo II) -

Finalmente riesco ad proseguire. Quando scrivo mi sento davvero bene, come se fossi il 'vero' me stesso. Non so se voi vi sentite così quando fate quello che vi piace e/o in cui credete di cavarvela.
Questi giorni ho sempre sonno. Mi è capitato di addormentarmi con la penna in mano un pò ovunque, casa, parco, bar.
Però non ho, non abbiamo scelta, no? Se c'è qualcosa in cui crediamo, dobbiamo provare a farla, ad ogni costo, anche quando il sonno bussa forte (e a Tokyo lo fa sempre). 
Buona lettura, un saluto


CAPITOLO V (Continuo II)

Pensava mentre con la mano carezzava la testolina dell'animale; questo ne era felice, e perso in una lunghissima fusa sembrava essersi calmato. Gli ricordò il rumore che faceva il motorino del padre quando fino qualche tempo prima lo andava a prendere all'uscita di scuola. I versi ritmici gli conciliarono la mente, e alla fine si decise a lasciarlo lì: la campagna dei nonni era piuttosto grande e dov'erano i limoni non ci passavano mai se non quando li dovevano raccogliere per distillare il limoncello che il padre vendeva (e beveva) in macelleria.
Inoltre la scatola era troppo grande perché riuscisse a uscirne, e anche se si fosse messo a miagolare per paura o solitudine, sarebbe stato difficile che i lamenti giungessero alle orecchie di qualcuno; c'erano almeno duecento metri fra loro e la cucina che s'affacciava sul prato.
E poi da quando il nonno Antonio era riuscito a comprare il televisore a colori  non c'era un momento che non fosse acceso, anche se non lo guardava nessuno.
Diceva che almeno così non era costretto a sentire la voce della moglie, e lei da parte da sua si era istantaneamente appassionata alle telenovelas sudamericane  e ne era così presa che non la sfiorava nemmeno l'idea di comunicare col marito.
Si, era convinto che fosse la cosa più sicura.
La sera avrebbe coperto la scatola con un coperchio forato per farlo respirare e ci avrebbe messo una pietra sopra, così sarebbe stato al sicuro da vipere, colpi di vento che avrebbero potuto rovesciarla ed altri eventuali pericoli.
Ora doveva risolvere la questione dell'occhio e di come nutrirlo.
La cosa più sensata da fare pensò fosse andare in farmacia, anche se non ci era mai andato da solo, visto che quando era stato male si era sempre limitato a prendere passivamente le cose che gli davano i grandi.
Avrebbe inventato sul momento ad una bugia da dire al farmacista per giustificarsi di essere andato senza i genitori, prima però doveva assicurarsi di avere i soldi.
Diede un'ultima arruffata amichevole al pelo della bestiola, coprì la scatola ed attraversò furtivo il campo che lo separava da casa.
Come si allontanò dagli alberi lo sentì miagolare, ma man mano che si allontanava i versi perdevano di intensità e si attenuavano sino a scomparire; aveva pensato bene e questo lo rincuorò un po'.
Entrò nella sua stanza stando bene attento a non farsi vedere e chiuse le tende nel caso fosse passato qualcuno fuori. Afferrò il classico porcellino di coccio col tappo svitabile sul fondo, si ricordava di averlo sempre avuto, e da altrettanto tempo opporre una fiera quanto inutile resistenza, alle sue periodiche razzie.
Quando l'ebbe fra le mani gli parve più pesante del solito, eppure non aveva ricevuto 'mance' inaspettate ultimamente. Svitò il tappo ad occhi chiusi, le monete scesero fitte tutte assieme, andando a tintinnare una sull'altra attutite dalla coperta del letto. Era pieno zeppo di spicci da cinquanta e cento lire, e in
più un paio di banconote da mille.
Effettivamente da quando era andato a vivere in mezzo al nulla dei campi non aveva avuto molte occasioni per spendere ciò che riceveva a natale e al compleanno dai parenti; il gelato e i soldatini glieli pagava il padre, lui al massimo si concedeva una partita ai videogiochi al bar della parrocchia dopo essere stato a messa la domenica mattina (il qual fatto gli rendeva più sopportabili le lunghissime omelie del prete su peccati che non comprendeva minimamente e il continuo in piedi-seduto della funzione). In effetti acchiappare lucertole  per la coda ed osservare per ore la stessa formica fare avanti e indietro non è che fosse un'attività così dispendiosa.
Per la prima volta fu grato di abitare fuori città.
Raccolse tutti i soldi che poteva, scelse solo le monete dal valore più grande, tutte nella tasca stretta dei calzoncini non sarebbero entrate.
Ci mise qualche minuto per uscire di casa e percorrere il giardino antistante la strada; era così carico che quando si muoveva risuonava come una pecora alla quale avessero attaccato una collana di campanelli,  voleva nel modo più assoluto evitare i nonni e le domande che gli avrebbero rivolto se lo avessero scoperto. Si immaginava la nonna guardarlo dal profondo dei capelli incanutiti e degli occhi azzurri chiedergli in pugliese «Disgraito, addù vai tutto sulu?».
Riuscì a raggiungere la strada inosservato, sapeva dov'era la farmacia, ma ci era sempre andato insieme a qualcuno. Comunque aveva visto il percorso dalla macchina tante volte ed erano solo le quattro del pomeriggio, di sicuro ce l'avrebbe fatta. Era settembre e faceva ancora caldo, anche se da mezzogiorno le nuvole avevano iniziato a mescolarsi sino a diventare un grande telo grigio che copriva l'azzurro del cielo.
Era vestito in maglietta, calzocini e sandali di plastica, a metà tragitto iniziò a piovere. Erano più o meno venti minuti che stava camminando, anche se si fosse messo a correre non c'era possibilità di evitare l'acquazzone, e di ripararsi sotto qualche portone non ci pensava nemmeno: se lui si bagnava si bagnava anche il gatto, di sicuro qualche goccia sarebbe entrata dai fori per l'aria, e nelle sue condizioni di salute, forse, pensava gli sarebbe stato fatale. Aumentò l'andatura, i capelli gli si infradiciarono formando una frangia lunghissima che per metà gli copriva gli occhi impedendogli di vedere i passanti che lo guardavano come un folle mentre a testa bassa, bagnato fino al midollo, passava incurante in mezzo alle pozzanghere con i suoi sandali da mare. Quando arrivò di fronte la farmacia i vestiti gli aderivano al corpo come i trasferelli che trovava dentro le patitine; per la via non c'era nessun altro a parte lui. Aprì la porta, il campanello rintoccò, il dottore lo guardò sorpreso mentre spargeva gocce su tutta la soglia; si ricordò di quel film con Clint Eastwood, e si sentì come lui quando solitario e dannato spalancava le porte del saloon attirandosi addosso tutti gli sguardi.
Provò ad imitarne la camminata mentre si avvicinava al banco... «La mamma mi ha mandato» disse senza dare la possibilità al farmacista di farlo per primo «perché il gatto ha sbattuto su uno spigolo del corridoio ed ora ha un occhio gonfio che butta sangue. Sarebbe venuta lei, ma lavora tutto il giorno e non può. Ha qualcosa?».
L'altro si toccò la montatura degli occhiali alzandola e abbassandola, squadrandolo come stesse valutando l'acquisto di un cavallo che avrebbe potuto fare la sua fortuna come ridurlo sul lastrico.
«Mh........ Ci sarebbe il 'Colbiocin' ma costa duemila lire... la mamma i soldini te li ha dati?». Non aspettava altro, ne aveva contati almeno il triplo, ce l'aveva fatta.
Estrasse dalla tasca tutto ciò che aveva e lo buttò sul banco fissando il farmacista con fare preciso e strafottente; era la prima volta ma da allora lo avrebbe fatto sempre ogni volta che qualcuno avrebbe provato a fare il furbo senza sapere che lui lo era di più «Questi bastano, vero? E poi mi dia pure del latte per neonati e un biberon, che c'ho un fratellino piccolo e la mammina per
noi non bada a spese».
Prese il pacchetto ed uscì come era entrato senza dire una parola, lasciando solo una scia d'acqua sul pavimento a testimonianza della sua presenza.
Tornò al giardino, lesse le istruzioni del medicinale e per giorni applicò con amorevole pazienza l'unguento all'animale, nutrendolo tre volte al giorno con latte liofilizzato.
Migliorava, lento ma migliorava. Dopo una settimana il gonfiore si era ridotto molto e cominciava pure a farlo sgambettare in libertà per i campi, dando la caccia assieme a qualsiasi insetto o animaletto che gli capitava sotto mano.
Si erano affezionati per davvero, e quando la lingua setosa del micio gli raspava la mano ancora liscia e ingenua, sentiva di avere fatto qualcosa di veramente
buono.
Un paio di settimane dopo tornò da scuola, ma non sentì i classici miagolii ad accoglierlo. Si precipitò pieno d'ansia verso la scatola, aveva il terrore che la nonna l'avesse trovato ed affogato dentro il pozzo. Non gliel'aveva mai visto fare, ma il padre gli aveva raccontato che quando era piccolo una volta l'aveva fatto con una cucciolata selvatica che avevano trovato perché temeva che crescendo sarebbero stati un pericolo per le galline.
Ma ora le galline non le avevano più, quindi perché...
Raggiunse la scatola di corsa, il coperchio era ancora al suo posto, con la pietra poggiata sopra. All'interno c'era un biglietto.
«Che questo ti serva di lezione. Questa è casa nostra, tu non c'entri niente. Se riprovi a prenderti ciò che ci appartieni per diritto, facciamo sparì pure a te - I Tuoi Amici-».
La disperazione più profonda che aveva conosciuto fino a quel momento si impadronì di lui... «Possibile che l'abbiano fatto? Possibile che l'abbiano fatto DAVVERO?».
Sentì ogni suo senso vacillare, sprofondare fino ai recessi più bui e dimenticati della terra. Tremo di paura, poi di rabbia.
Andò al capanno degli attrezzi del nonno e prese la mazza con la quale di solito ammazzava le vipere quando andava a seminare i campi.
Il sognò finì.
Si guardò intorno spaesato ma piuttosto lucido. Una stanza d'ospedale.
Di fronte a lui una ragazza con un profondo trucco nero, i capelli dello stesso colore. Un piercieng al sopracciglio e diversi altri alle orecchie.
I lineamenti sfumati da bambola di porcellana.

sabato 26 maggio 2012

Un nuovo motivo - Cap. V (Continuo) -

Torno a postare. Forse voi non  avete nemmeno fatto caso all'assenza, ma a me è mancato moltissimo questa settimana.
Tokyo (e il Giappone tutto), purtroppo o per fortuna, è una città che non ti fa accorgere dello scorrere del tempo. E' bene e male. Il tempo passa discreto, ma passa, croce e delizia.
Ho provato a scrivere in ogni momento libero: sul bus, treno, pausa dal lavoro.
Ma il sonno ultimamente vince facile, la penna da leggera diventa pesante all'improvviso, e quando ti svegli sei di nuovo immerso nella vita.


Comunque Remo adesso sogna, e sogna forte.
Sogna diverso da voi, ma quanto può essere diverso un sogno? Tutti noi lo facciamo, ci riviviamo, immaginiamo e metabolizziamo così.
Quanto sono diversi i sogni di Remo dai vostri? Quante sono le cose che ci dimentichiamo per non volerle ricordare e nonostante tutto ci ritroviamo nell'ingorgo incosciente di quello che siamo, dei sogni che nemmeno volendo potremo mai cambiare...


Sole tre paginette, avrei voluto finire. Ma non sono tre pagine da buttare, e prima o poi finirò. Un abbraccio


CAPITOLO V (Continuo)


Ogni tanto riusciva a socchiudere gli occhi, gli sembrava di vedere qualcuno intorno a lui, di essere in movimento a gran velocità. Sentiva un gran frastuono dentro e fuori, non era sicuro se fosse realtà o stesse solo sognando. Gli accadde tre o quattro volte. Aprì e chiuse, persone; aprì e chiuse, rumore; aprì e chiuse, confusione, immagini e suoni impastati uno sull'altro. Aprì e chiuse, poi sognò davvero. 
Si rivide bambino a casa dei nonni in mezzo agli alberi di limoni.
Sua madre se ne era andata da poco, aveva sei o sette anni.
Il padre aveva troppo lavoro alla macelleria, troppo poco tempo per badare a lui.
O forse semplicemente troppa poca voglia. Remo passava il tempo a ciondolare per la campagna e a giocare a scopa col nonno sulla veranda.
Il padre si faceva vedere una volta a settimana la domenica per portarlo in sala giochi o a mangiare un gelato. Era come uno di quei padri separati part-time che si fanno vedere solo il fine settimana, solo che non lo era.
Per questo motivo non è che nutrisse tutto questo affetto per lui, e nemmeno per i nonni, almeno presi assieme: si erano sposati senza amarsi per convenienza nei primi del novecento. Erano tutti e due pugliesi, la nonna avrebbe voluto sposare un pittore spiantato (ma bellissimo, da quel che ne diceva)  che le aveva proposto di scappare assieme, ma non ne ebbe il coraggio, troppe malelingue nel paesino. Così finì per sposare nonno Antonio, il commerciante d'abiti col carretto, verso il quale non provava né stima né amore, ma serviva a coprire bene le apparenze della provincia del sud. Dopo due anni di buoni affari il carretto non bastò più ed emigrarono a Roma aprendo una bottega. Poi un'altra. Che non si amassero lo capiva anche un bambino come lui, più che altro per le bestemmie che il nonno le rivolgeva anche quando la mela cotta delle sei e mezza (la loro cena da diabetici) era troppo o troppo poco cotta.
Così preferiva stare per conto suo, passando la maggior parte del tempo a rotolarsi il mezzo all'erba e a salvare gli insetti che i suoi 'amici' di campagna si ingegnavano a catturare con trappole rudimentali per farli morire bruciati al sole.
Non capiva perché i suoi compagni di giochi dovessero divertirsi così, ed ogni volta che disinnescava quei marchingegni infantili e crudeli, i suoi 'amici' lo scoprivano e lo riempivano di schiaffi, o almeno così gli parve di sognare. Poi sognò un po' più forte, avvertì una fitta intensa alla mano e il sangue scorrergli dal naso.
Continuò.
C'erano questi ragazzini cresciuti come lui a metà strada fra la città e la campagna, indecisi su cosa essere o che strada prendere, che stavano tirando sassi a un gattino che si trovava nel fosso del 'Sor Bastiano', un vecchio bisbetico che non gli ridava mai la palla quando finiva dentro casa sua.
Il fosso era piccolo, profondo una decina di metri, soltanto un altro centinaio lo separava dalla strada. L'erba vi cresceva libera e indomata, pieno di ortiche, rovi, margherite, spine. Quasi impraticabile giocarci, se non quando si voleva catturare ad ogni costo la lucertola che ci si era andata a nascondere. Però erano diversi anni che resisteva all'avvicinarsi inarrestabile della città; tant'è che quel posto era diventato il ritrovo dei gatti e cani (a volte anche ricci) selvatici o abbandonati che dovevano partorire.
Avevano trovato questo gatto di pochi giorni senza madre né fratelli, era malato e miagolava stonato senza fermarsi.
Un occhio era gonfio e pieno di pus, a confronto con l'altro pareva una palla da baseball. Li vide da lontano, senza pensare si precipitò verso l'animale per proteggerlo, a quell'età gli sembrava semplicemente ingiusto che la bestiola fosse presa di mira solo perché era sola e diversa.
Ovviamente ci si rispecchiava, ma non lo capiva ancora.
Si mise in mezzo alla sassaiola e prese tutti i colpi al posto suo.
I ragazzini non si fermavano, per loro non era importante cosa colpire, l'importante era farlo, scacciare via l'ansia confusa scaricandola contro qualcosa che fosse più diverso rispetto a come si sentivano; che fosse un bambino o un gatto era indifferente.
Diverse pietre lo colpirono alle gambe e alla testa rompendogli gli occhiali (da quel giorno non li avrebbe più indossati).
Il capetto del gruppo, un ragazzino magro e atletico con l'aria da furbetto e i denti grossi e sporgenti, prese una pietra più grossa e la scagliò verso Remo con tutte e due le mani.
Cercò di scansarla, ma lo prese preciso sulla spalla, si piegò quasi di trenta gradi, pareva stesse per spezzarsi in due, ma non era ancora il momento.
Approfittò dell'occasione e raccolse il micio mettendosi a correre con tutta la velocità che sapeva verso la striscia d'asfalto che separava il fosso di Bastiano dalla campagna dei nonni.
Gli urlarono dietro qualcosa come «Ah San Francè, ma do vai? Tanto prima o poi di qui ci ricapiti, lo sai, e due pizze non te le leva nessuno! Corri lepre, corri, sennò ti ammazziamo di botte!», ma non ci badò, troppo concentrato sulla corsa.
Passò dalla rimessa degli attrezzi del nonno per prendere una scatola di cartone ed andò direttamente verso il piccolo spiazzo con i tre alberi di limoni stando ben attento a non farsi vedere.
Mise l'animale nella scatola; mentre entrambi cercavano a modo loro di calmarsi e normalizzare il battito del cuore riuscì ad osservarlo meglio: era bianco a chiazze nere, con un una macchietta sul mento che gli fece pensare al pizzetto di un moschettiere.
Non era brutto se non fosse stato per l'occhio infetto e le pulci incolonnate che gli percorrevano il pelo ancora rado.
S'interrogò a lungo sul da farsi, ma a sette anni non si hanno troppi margini di decisioni o opportunità autonome, se non quelle di venire istruiti, imboccati e condotti nel mondo degli adulti man mano che si cresce, sempre che lo si abbia, l'adulto.

mercoledì 16 maggio 2012

Un nuovo motivo -Cap.V (Inizio)-

Dunque... Oggi niente da segnalare. Sono stato al parco di Yoyogi 代々木公園。
Stavo per fatti miei, e intorno c'erano tante altre persone, ognuna con la sua vita, con chissà che sentimenti dentro... E ci godevamo tutti l'aria fresca che ci passava addosso, senza stare a pensare al dopo, o da dove parte il vento, o stronzate così...


Ho iniziato il V capitolo, procedo, ma lento. Quando mi metto d'impegno una pagina a ora, senza contare che poi la devo riscrivere al pc e poi rileggerla qualche volta. Però per il momento mi viene naturale. Anzi, mi sono proprio divertito :D Forse oggi ho voluto un pò bene a Remo per la prima volta.
E' rischioso perché ci sto spendendo un sacco di tempo. Ma ci credo. O almeno credo di provarci!
Leggete eh (l'altra volta mi ero sbagliato, il tastino per ricevere gli aggiornamenti c'è  solo da ora. E non è proprio un tastino, dovete mettere la vostra mail, ma è sicuro eh! Non è che vi arriva Vanna Marchi a casa, tranquilli :p)


CAPITOLO V (Inizio)


Non si accorse subito di quello che era accaduto, tant'è che continuò a battere colpi forsennati in preda al ritmo folle come niente fosse.
Poi il sangue sgorgò. Fu espulso dalla base del dito con una forza inaudita, sembrava non volesse più stare in quel posto e i globuli rossi che stavano dietro spingevano quelli davanti con tutte le loro energie. Non provava dolore.
Mollò il coltello, senza fare niente guardava tutta la vita che fluiva, schizzava via da lui e andava a finire sull'intreccio di carni martoriate. E queste erano ancora morte, non c'era dubbio, anzi, se possibile fino al momento prima lui le stava uccidendo una seconda volta, togliendogli quel minimo di dignità che gli restava.  Però vedendo la sua essenza solida, ciò che lo faceva respirare e tenere in piedi, posarsi rabbioso e senza controllo su quello che rimaneva della sua coscienza e sui resti di quelli che una volta erano animali fino a coprirli completamente donandogli un aspetto nuovo, lo fece sentire in estasi.
Forse era l'adrenalina, ma si sentiva vicinissimo alla 'verità', ad una comprensione che non sapeva di stare cercando.
I sensi andavano verso l'esterno, fuori da lui, e si stendevano al loro massimo per fondersi con l'ossigeno carico di odori, emozioni, storie passate; centimetro dopo centimetro.
C'erano quasi, c'era quasi, poi finì.
Tornarono dentro riavvolgendosi come un metro a scatto.
Provò un brivido, poi il dolore.
Le ginocchia lo tradirono di colpo e si piegò in due, cercò di mantenersi eretto appoggiando una mano al tavolo, ma era troppo scivoloso per via del sangue, la presa gli mancò e cadde di fianco sul pavimento sbattendo la tempia sinistra.
Adesso guardava la scena con una visuale obliqua, con la guancia in contatto col pavimento e gli occhi che si stavano per chiudere, fissi sulle gocce di sangue che gli scendevano sopra una dopo l'altra. La percezione era confusa, sbiadita, ma sapeva che se non si fosse tirato su in quel preciso momento non l'avrebbe più fatto. Si morse il labbro inferiore con gli incisivi fino a farsi male, cercava di non pensare al dolore alla mano e alle energie che lo stavano abbandonando.
Fece leva con la mano sinistra (quella sana) sul pavimento, e con un colpo di reni riuscì a mettersi seduto. Aveva il fiato corto e non contava di riuscire a rialzarsi. La testa gli diceva di rimanere così, fermo, inerte, che questa era la sua fine, che l'aveva scelta ed ora doveva solo starla ad aspettare. In fondo la sua era un'esistenza miserabile, non aveva combinato niente di buono, solo fughe da letti la mattina, raggiri, rapporti consumati con la fretta di dimenticare, compreso quello col padre.
Respirava sempre più piano, affannato come dopo una corsa lunga quarant'anni; le voci nella testa stavano pian piano battendo l'istinto di sopravvivenza.
Chiuse un occhio, lo faceva sempre prima di dormire: ne chiudeva prima uno e poi attendeva che l'altro lo seguisse di sua iniziativa, aveva da sempre paura del buio che arrivava quando li chiudeva assieme. L'altro era già a metà palpebra quando, per caso, si posò sull'orologio che teneva al polso; un'abitudine troppo radicata... Le otto e venti, dieci minuti e... «Dieci minuti e Maria arriva... Dieci minuti... Maria... Aò... Maria... Cazzo, Maria!»
Un raggio di lucidità tornò ad illuminarlo.
«Maria, Maria! A quella je se pja un colpo se non me vede. Almeno la devo avvertì che sto a morì!».
Tornarono anche le forze, poche e deboli, ma forse gli sarebbero bastate per trascinarsi fino in strada.
S'alzò. Stette ad aspettare di cadere di nuovo. Non cadde. Anzi. Si mise a correre verso l'uscita, non avrebbe mollato. Si rendeva conto che fino a quel momento la sua vita era uno schifo, peggio della mediocrità, ma voleva rimanere acceso finché l'avrebbe deciso lui.
Prima di varcare la soglia come una furia, scorse Maria che stava con la bocca aperta avvolta nello scialle nero, mentre lo guardava avvicinarsi spruzzando sangue ovunque. Senza smettere di correre disse «Sora Marì, io chiudo, addio. La carne andatela a comprà da Gigi, è più bona. Ve vojo bene, un abbraccio a Pallino, er Molla e tutta la truppa».
Adesso stava fuori. E il sole tornava a bruciare su di lui; era meno minaccioso. La botta d'adrenalina era scemata, si ritrovò in mezzo ad un incrocio della Prenestina, con le macchine che gli sfrecciavano ai lati e 'gli facevano il pelo', nemmeno se ne era reso conto.
Le persone dai marciapiedi lo indicavano, le signore si mettevano una mano davanti la bocca per lo sgomento e l'altra sugli occhi dei bambini per pietà.
Gli venne un pensiero stupido «Il mio momento di celebrità, il momento che Remo il macellaio muore in mezzo alla Prenestina senza un dito schiacciato da una macchina. Finirò sui giornali. La mia fine del mondo scritta su misura».
Poi una Fiat Panda, di quelle vecchissime, gli parve guidata da una ragazza magra coi capelli lunghi e neri, un viso Cleopatra, verso di lui senza possibilità si scansarsi, o di frenare lei.
Chiuse gli occhi, stavolta insieme.
Si senti spostato di peso, con violenza metallica, udì un botto frastornante.
Quando li riaprì era riverso sull'asfalto, vide delle piume bianche sospese nell'aria... Che fosse morto?
Ma le piume che c'entravano? Ammesso che il paradiso esistesse, non era posto per lui.
Senza volerlo gli si chiuse un occhio, e l'altro a seguire come al solito. 
Troppo pesanti.
Prima di svenire gli sembrò di vedere Cleopatra che urlando «Oddio Oddio» scendeva dal pandino, una gabbietta per uccelli rotta, una vespetta distrutta a qualche metro dalla macchina e un ragazzo che sorrideva steso dove doveva trovarsi lui, pure lui con gli occhi semi chiusi che lo fissavano. Credette di vedere pure una gallina che stava serena, impassibile in mezzo al traffico.
Ma era troppo assurdo. Buio.

lunedì 14 maggio 2012

Un nuovo motivo - Capitolo IV (CONCLUSIONE)

Sono giorni normali. Prendo quello che mi arriva e non cerco altro. Anche un pò felici, a volte. Per esempio quando qualche volta parlo giapponese senza pensarci e mi viene naturale, quando scrivo, quando sto con gli amici. Quello che non ho mi manca. Ma ora va davvero bene questa serenità semplice, prima devo finire quello che ho iniziato, sennò mi perdo e lo so.


A proposito. Un mese di libro e il blog, anche se non è commentato, ha superato le 500 visualizzazioni. Complimenti a noi tutti :)
Ah, su Facebook a volte la notifica del blog si perde, quando lo visitate, se volete, c'è il tastino per 'abbonarvi' (non costa niente eh :p), così vi arriva la mail rompicoglioni per comunicarvi che sono andato avanti.


Avanti ci sono andato. Ho finito il capitolo IV, Stefano saluta. Ma salutaper davvero. Poi il prossimo una bella rivoluzione, finisce e inizia tutto.
Spero vi divertiate a leggere :)


CAP IV-CONCLUSIONE-


La chiave girò nella serratura. Luna lo guardò accovacciato a terra a gridare, in mezzo alla cucina macchiata di caffè.
Si mosse senza parlare, mettendosi seduta accanto a lui che si nascondeva il viso fra le mani. Lo abbracciò leggera, rimasero così per un tempo che nemmeno lei riusciva a quantificare, gli carezzava i capelli sporchi e baciava le lacrime che gli sfuggivano dagli occhi e gli rigavano le guance.
Poi Stefano parlò a voce bassa, senza alzare le mani dalla faccia «Per me Renzo contava. Come te, come la vita che abbiamo. Era uno dei miei posti di sole. La telefonata spensierata di due minuti. Era qualcosa che c'era, che vedevo, che mi era amica. Basta cene accostati uno all'altro in corridoio, basta corse in mezzo al traffico per un caffè ed una presa in giro, basta tutto. E' finito il tempo, Lù. E' finito e nessuno mi aveva avvertito che sarebbe passato all'improvviso senza tornare.
Vorrei strapparmi i vestiti, i capelli, la pelle e tutta l'anima ed urlare fino a stare male. Ma non cambierebbe niente. Non so che fare».
Luna gli strinse forte le mani. Lei l'amore non lo sapeva spiegare nemmeno a sé stessa, però sapeva che c'era, che  le abitava dentro e che fra loro circolava. Non era brava a consolarlo, e la colpa era di Stefano: quando voleva stare male non ascoltava nessuno. Si aggrappò con tutta la sua forza ai sentimenti che aveva, gli chiese di superare i propri limiti; sentiva che era una cosa più grande di lei, ed era terrorizzata che tutto l'amore che gli girava attorno non bastasse e che si spegnesse come si stava spegnendo Stefano
«Amore... Non ci sono parole, non potrai mai trovare una consolazione, un motivo, per quello che è successo. Ma passeremo anche questo, te lo prometto. Ti sarò vicina sempre. Il tuo dolore non lo posso capire, ma capisco te. Ne usciremo insieme. E se cadrai mentre cerchi di rialzarti da questo colpo che t'ha portato via un pezzo, io cadrò con te, seguirò ogni tuo passo» 
Stefano sentì che il cuore si allontanava dal centro del corpo, che non era più con lui ed andava a perdersi da qualche parte distante del mondo.
«Lù, non ce la faccio. Non accetto che doveva andare così, senza una ragione. Mi sento svuotato, m''hanno portato via una cosa vitale che avevo messo via col tempo, accumulato anno dopo anno. Non può finire così, non deve! Non deve andare che adesso piango e mi ubriaco e facciamo l'amore e soffro e urlo e tiro pugni al vento, mi dimeno contro il destino infame e poi di nuovo come prima.
Perché lo so, e lo sai pure tu che fra un mese, un anno, abiteremo a casa nostra, con il lavoro, i film su internet, la pizza il sabato e dopo da Antonello. E dimenticheremo Renzo e questa disperazione facendo finta che non sia successo niente perché è così che va la vita»
Luna trattenne le lacrime, sapeva che doveva essere più forte di lui questa volta, altrimenti il loro cielo mezzo pieno gli sarebbe crollato sulla testa, ma le labbra le tremavano 
«Amore... ti prego... faremo tutto quello che c'è da fare, ma cerca di scuoterti. Hai ragione tu, la vita è questa, non la possiamo capire sempre. A volte dobbiamo solo aspettare e starla a guardare, anche quando fa male».
Stefano si tolse le mani dal volto, scoprì gli occhi e Luna perse il filo dei pensieri, fu risucchiata dal vuoto che sprigionavano. Le pareti di casa, la cucina strettissima dove stavano accoccolati si rimpicciolì, si strinse su di loro, e poi scomparve. E con lei le partite a scacchi a notte fonda; i concerti dei primi tempi, quando non avevano i soldi per i biglietti e scavalcavano ogni recinto; i post-it romantici la mattina, le carezze, le canzoni ed i disegni scritti sui muri della loro doppia con i colori a tempera.
Stefano concentrò il respiro, le parole si fecero attendere dei secondi lunghissimi prima di venire fuori «Io vado via».
Luna, sorprendendosi, rimase impassibile «E dove?»
«Non so. Però vado a cercare un senso a tutto questo. Credevo fosse qui, ma mi sbagliavo. Mi dicevo che andava bene, che quello che avevo mi bastava. Che tu il lavoro e gli amici eravate ciò di cui avevo bisogno, invece non è così. Mi sono preso in giro sin dall'inizio senza rendermene conto».
La risposta di Luna stavolta fu meno sicura, la voce usciva e si bloccava subito dopo.
«Amore... Stè, ti prego smettila. Tu parli così solo perché ora stai male... Non durerà per sempre, lo sai che è così... lo è per tutti...»
Le rispose in modo così freddo che ne fu spaventata, e non riuscì a non piangere. Non era abituata a quella parte di Stefano. Il suo ragazzo era emotivo, cazzone, serio, amichevole, odioso quando gli riusciva qualcosa di buono e se lo tirava per giorni. Freddo, inespressivo, mai.
«No Luna. Ci ho pensato tutto ieri e stamattina. Credo che Renzo se ne sia andato incazzato per le cose che voleva ancora fare e non potrà, però felice. Lui si, si è sempre ascoltato. Sai, la sera che ci siamo conosciuti mi ha rotto per ore: voleva farsi un giro sulla vespa, se ne era innamorato. Alla fine ho ceduto, alla prima curva scivola e mi rifà la fiancata... Quanto ha riso... Io ero nero, ma alla fine la sua risata m'ha contagiato... Da quando lo conosco non l'ho mai visto inseguire qualcosa che non desiderasse per davvero. Dalle cose semplici come un giro in vespa a quelle difficile come il mutuo con la ragazza. 
Le mie cose, invece, non sono volute, sono 'capitate'. E io me le faccio andare bene. Però penso che ci sia dell'altro da trovare, solo che il mio 'altro' è diverso da quello di Renzo. Lo voglio cercare prima di non tornare indietro pure io.»
Le emozioni di Luna scattarono all'unisono. Era una ragazza tranquilla, serena, con tanta voglia di amore, di darlo e riceverlo; le piaceva vivere così, semplicemente, ed era pura nel farlo. Quando però le accadeva qualcosa di inaspettato, che non prevedeva e non capiva perché dovesse andare ad intaccare le sue risposte chiare e semplici alle domande complicate della vita, provava un getto improvviso di adrenalina, balzava come un gatto. Si arrabbiava e passava all'attacco, difendeva con le unghie io suo territorio, ciò che per lei era importante.
«OHHHH! Ma che cazzo! Ti sei impazzito? Dove cazzo vuoi andare all'improvviso? Vuoi tornare in te? Morire è la cosa più NORMALE della vita. E tu adesso, per la normalità, molli tutto? Molli me? Ci siamo fatti in quattro per arrivare fino a qui, e adesso stop, chiuso, finito perché decidi che hai lo scazzo universale? Non funziona così, per niente!!! M'hai capito?!? E guardami cazzo!»
Era rossa in viso, lacrime e fiato corto.
«No. Sbagli. Mi sono rotto di vivere così. Di fare due lavori per arrivare a fine mese coi centesimi contati, di abbassare la testa coi prof. quando discriminano gli alunni migranti, di strisciare e leccare solo per aspettare un momento giusto che non arriva mai e lentamente perdermi dentro, fondermi con l'ordine delle cose, con le routine, fino a svegliarmi una mattina e non ricordarmi come diavolo mi chiamo io. SE sono ancora io o solo uno che è diventato parte dell'ingranaggio immobile e perfetto di sta cazzo di società dell'apparenza. Perché ti giuro, se continuo a dire 'si' alle cose che non mi piacciono, alle quali dovrei dire 'no' secco e inviarli tutti a cagare dicendogli quello che penso, alla fine mi convincerò che la risposta giusta è la loro, e che sorridere ipocrita e non fare niente di fronte alle cose ingiuste che ci passano davanti, sia davvero la cosa migliore. Qui non si tratta di morire all'improvviso, sono io che lentamente lo sto facendo da solo»
Poi furono botta e risposta velocissimi. Senza pensarci. Senza pensarsi.
«Basta basta basta! Parli come i ragazzini ai quali fai lezione, dovrebbe essere il contrario! Perché non ti basta quello che c'è adesso? Quello che puoi sentire, toccare, vedere; perché non ti basto io? Il senso è qui, dentro noi, non fuori!»
«Il tuo Luna, solo il tuo! Il tuo è questo e lo so! Tu ti guardavi allo specchio da bambina, e da grande ti vedevi così! Io no! Non così, non venduto per un pezzo di pane, così normalmente infelice come tutti gli altri!»
Le emozioni di tutti e due stavano facendosi sentire così forti da fargli girare la testa. A lei un pò di più.
«Che vuoi fare Stè? Che vuoi diventare? Dimmelo, lo facciamo insieme, come sempre, INSIEME»
Non gridavano più.
«No. Basta. Tu lo sai quello che vuoi fare. Sei perfetta. Tieniti stretta. Io vado a cercare quello che tu già sai. Se esiste anche per me non lo so, ma se nemmeno ci provo...»
Non finì la frase. Si mise i jeans sporchi, prese le chiavi della vespa e uscì di casa. Pareva stesse andando a fare la spesa come quando dopo aver fatto l'amore gli veniva fame. Invece se ne stava andando.
Luna perse tutte le parole e le energie per due minuti, centoventi secondi esatti. Poi il gatto in lei si svegliò di nuovo e gli corse dietro senza chiudere la porta. Centoventi secondi di troppo. Fece solo in tempo a vedere la vespa che si allontanava, la maglia con la scritta 'Don't look back in anger' e il portiere che gli correva dietro sgangherato con i cedolini dei condomini non pagati in mano.