sabato 28 aprile 2012

Un nuovo motivo - II Capitolo (continuo, III parte).


Cap. II (continuo, III parte)

Lei, quasi avesse letto in anticipo la mossa come quando giocavano a scacchi, si era messa una sua camicia (quella che gli rubava sempre, verde militare e larga, con un cavallo sul taschino) e si era gettata all'inseguimento , a piedi nudi e in canottiera, per le scale.
Stefano era già al primo piano quando lo raggiunse.
«Amore, amore fermati per favore».
Invece continuava a scendere i gradini di peso e barcollante, sembrava una molla mossa controvoglia dalla forza d'inerzia.
Luna fece uno scatto e lo afferrò forte per un braccio.
La voce gli esplose con un tono a metà fra l'arrabbiato e il supplichevole «Ohhhhh! Vuoi dirmi dove cazzo vai? E comunque vengo con te!» 
Stefano si girò lentissimo, la guardò come chi non prova nessuna emozione, anche se in realtà ne era travolto come una boa isolata fra le onde dell'oceano.
«No.»
Luna rimase impietrita a guardarlo, sospesa in un rettangolo di tempo che le parve dilatarsi all'infinito, mentre percorreva il giardinetto comune che portava al parcheggio delle moto; lasciandosi alle spalle lei, la doppia condivisa in una casa di studenti, il letto mezzo rotto, il contratto d'affitto del loro nuovo appartamento, e tutto quello che si può accumulare in due anni e mezzo di convivenza.
Quando arrivò al pub di Antonello erano solo le due passate, sbirciò dentro in cerca di una presenza, ma vide solo le locandine dei vecchi film di Fellini e Pasolini attaccati al buio delle pareti.
Doveva ancora essere all'ospedale, decise di aspettarlo lì, non sapeva che altro fare.
Quando un'ora dopo Antonello arrivò assieme al Bianco in sella al Fifty 50 scassato che si portava dietro dai tempi del liceo, trovò Stefano seduto sul marciapiede a testa bassa, come se dormisse da molte ore, e le braccia incrociate.
C'erano cinque o sei lattine di birra vuote disposte in circolo ai suoi piedi, e nel mezzo una tale quantità di mozziconi spenti che sembrava avere aspettato tutta la notte l'amata donna invano, come gli antieroi dei film noir.
L'occhio matematico del Bianco, abituato a rapidissimi calcoli di corretta amalgama fra cemento ed acqua, stabilì che il cumulo corrispondeva grosso modo a un pacchetto e mezzo di Marlboro rosse.
Non ebbero bisogno di parlarsi, si strinsero d'istinto in un lungo abbraccio a tre, senza piangere, ognuno  unito e diviso da un dolore diverso, profondissimo.
Renzo era stato qualcosa di comune ma unico per tutti e tre.
Antonello aprì il pub, sgattaiolarono dentro all'unisono, e richiuse a chiave la porta.
Bevvero insieme, bevvero birra, whiskey e sopratutto gli Antonello's Special (normale caipiroska con un pò di menta e un goccio di tequila col 'gusano', ma a lui piaceva vantarsene), e parlano sempre di Renzo.
Prima tristi, poi man mano che l'ossigeno portava l'alcol in circolo nel corpo, iniziarono a tirare fuori i ricordi più buffi e divertenti. Risero.
Il Bianco, che era quello che lo conosceva da più tempo, e probabilmente gli era più legato, ricordò i pomeriggi d'agosto torridi del  91', quando passavano il tempo a catturare salamandre e a succhiare i ghiaccioli da seicento lire al bar della zoppa. E a sognarsi uomini.
Ricordò le prime luci dell'alba viste insieme la prima notte passata fuori casa a tirar tardi promettendosi, disperati d'amore e sesso com'erano, che la prima che gliel'avrebbe data non l'avrebbero fatta più scappare.
L'idea onnipresente di Renzo, che c'era anche quando mancava, anche quando adulti ci erano diventati e il Bianco era rimasto a Roma a costruire palazzi coi mattoni e con le mani, e Renzo girava l'Italia a costruirli sulla carta.
Renzo che c'era, anche quando un mese prima era andato a convivere con la ragazza storica, la prima, nella casa che avevano comprato accendendo un mutuo, giovanissimi, con l'aiuto dei genitori di entrambi.
Ed anche se il Bianco viveva in una casa popolare con i genitori, la sorella, la nonna disabile, lo zio perdigiorno e zero prospettive di andarsene a breve termine, nessuno aveva mai fatto pesare la propria posizione all'altro.
Era che a Renzo le cose venivano facili e spontanee come lo era camminare, e a lui no, perché ogni lavoro, macchina, rapporto interpersonale del Bianco si complicava, o se lo complicava da solo fino ad intrecciarsi i neuroni e non sapere più come uscirne.
Però la spontaneità delle cose che capitavano al suo migliore amico (comprese, e sopratutto, quelle brutte), gli facevano sperare che anche la sua vita di alti e bassi, provocati e provocatori, sarebbe prima o poi diventata una vita di alti e bassi naturali.

giovedì 26 aprile 2012

Un nuovo motivo - Capitolo II (continuo)-


Oggi ho continuato a scrivere un pò il II capitolo fra gli spostamenti a Tokyo, mi sento ispirato.
Fosse solo uno, sarei contento se quacuno fosse curioso di leggere.
E se non lo fosse nessuno andrebbe bene lo stesso, sono curioso io di scrivere.

Capitolo II (continuo)

La mattina dopo impiegò più di un quarto d'ora da quando aprì gli occhi per riprendere contatto con la realtà.
Il giorno prima doveva avere bevuto molto, perché la testa e il fegato gli dolevano in modo terribile, ma non se lo ricordava bene.
Con un gesto istintivo allungò la mano fino all'altro lato del letto a due piazze (anche se in realtà erano due letti singoli uniti e tenuti fermi da un'asse di legno inchiodata alla bene e meglio alle estremità) cercando un contatto fisico con Luna.
Non lo trovò,  mugugnò in modo rozzo.
Non capiva bene che ora fosse, potevano essere le dieci come le tre del pomeriggio, per quel che ne sapeva.
Fece uno sforzo terribile per aprire gli occhi, le palpebre gli pesavano come due asciugamani di spugna intrisi d'acqua sino all'ultima fibra.
Quando le sollevò, il sole gli colpì senza preavviso le pupille provocandogli un dolore lacerante che si trasmise ai nervi oculari e da li si sparse in tutto il corpo, come fosse una gigantesca cassa armonica.
Dall'intensità della luce che filtrava dalle persiane semiaperte e dal rumore di forchette che strusciano sul piatto che sentiva provenire dal bar di sotto, stabilì con l'approssimazione lucida di un ubriaco, che doveva essere più o meno mezzogiorno passato.
Cercava di riordinare i pensieri, ma era passato troppo poco tempo, o almeno così credeva, da quando era crollato privo di sensi.
Alle undici aveva una supplenza all'università per i nuovi studenti ERASMUS, ma l'idea di controllare il cellulare per vedere l'ora o le chiamate perse li sfiorò solo un attimo e lo abbandonò subito, come un colpo di vento venuto dal nulla che solleva foglie e terra, e poi se ne va lasciandole ricadere al proprio posto.
Il giorno prima non era voluto andare all'ospedale insieme ad Antonello e al «Bianco» (soprannome che si portava dalle elementari per via del cognome, Bianchi, e per la carnagione più scura della media, eredità di una millantata lontana discendenza spagnola).
I suoi migliori amici, insieme a Renzo.
Si sentiva ancora troppo scosso e gonfio di lacrime per dire qualche patetica frase di circostanza, o sincera, o qualsiasi altra cosa ai parenti ed alla ragazza di Renzo.
Dopo  aver pianto per più di mezz'ora dopo la telefonata, si era alzato, e senza dire una parola a Luna aveva preso le chiavi della Vespa ed era uscito.
Lei, quasi avesse letto in anticipo la sua mossa come quando giocavano a scacchi, si era messa una sua camicia (quella che gli rubava sempre, verde militare e larga, con un cavallo sul taschino) e si era gettata all'inseguimento veloce e silenziosa, per le scale.

mercoledì 25 aprile 2012

Un nuovo motivo - Parte II


Secondo capitolo, non tutto però, non l'ho finito. Oggi ho scritto come un matto...

Cap II (un anno prima)

Stefano era al limite della soddisfazione. Così carico di autocompiacimento e soddisfazione di sè, non ricordava di esserlo stato mai.
Uscendo dagli uffici regolari e duri dell'agenzia immobiliare, stringeva ancora in pugno il contratto della sua prima vera casa in affitto, con  tanta forza inconscia da averlo quasi ridotto uno straccio.
Gli parve di percorrere la strada che lo separava dalla vecchia vespa Piaggio azzurra come in un sogno, con l'orizzonte che faceva avanti e indietro, la strada che si contorceva e snodava su sè stessa come il movimento di un serpente. Nel frattempo si ripeteva mentalmente per la milionesima volta la scena: l'agente immobiliare, un ragazzo sui ventinove anni come lui, ben sbarbato e pettinato con i capelli a punta come andava di moda, che gli porgeva il contratto; lui in preda all'emozione che invece di firmare nel modo sofisticato e provato tante volte a casa da solo, fa uno scarabocchio incomprensibile simile a una croce; il rilascio istantaneo delle endorfine, la certezza di una casa in tasca che gli entra in circolo e si mischia al sangue.
Poi la stretta di mano; le chiavi che come un gioco di prestigio ben riuscito, spariscono dalle mani dall'agente e finiscono nelle sue; il sorriso bianchissimo, senza un errore, del ragazzo.
Del dopo si ricordava lui che sale con in sensi ancora appannati in sella, e con gesti automatici toglie il bloccasterzo, allaccia il casco e mette in moto.
La sgasata, il salto dal marciapiede e una macchina, forse rossa, che lo sfiora, con il conducente che gli riversa addosso una quantità di improperi in romano stretto, tali da far straripare il Tevere.
Ancora lui, lui e la strada soli. E lui che vince, perché se la divora.
Tutti fermi in coda, bloccati sulla Tiburtina, e la Vespa che sguiscia, sorpassa, accelera e scivola in mezzo al traffico, ai semafori e alle bestemmie di chi sta facendo tardi a un pranzo di lavoro.
E la risata che gli scoppia improvvisa in mezzo ai clacson, lo smog, e tutte le persone intrappolate nella spirale di macchine ferme.
Arrivò sotto il portone di casa  così veloce che quando frenò per poco non cadde sul brecciolino, e dovette puntarsi con un piede per terra per non perdere l'equilibrio. Ciononostante rideva ancora mostrando i denti, da solo, e sentiva che doveva avere un'intera famiglia di moscerini morti sugli incisivi, ma non gliene importava niente.
Mise male e di fretta il cavalletto, il cinquantino cadde portandosi appresso la bicicletta nuova appena comprata di Nino, il figlio del portiere.
Ma se ne fregò.
Perché tanto lui da quell'appartamento di studenti, di drogati e perditempo, di finti comunisti partigiani, se ne stava per andare. Passò davanti il gabbiotto del del portiere ignorando del tutto gli «Eh!» e «Oh!» che gli rivolse, probabilmente per ricordargli che un condominio o due erano scaduti da qualche mese di troppo. Attraversò rapido il giardinetto di palme malate che lo separava dalla Scala B,, aprì il portone e salì i gradini a due a due fino al terzo piano.
Spalancò la porta di casa e riconobbe subito il profumo di ciambellone al limone mezzo bruciato che preparava la sua ragazza. La cucina era proprio di fronte all'ingresso,  spostata solo di mezzo metro sulla destra, quindi la vide subito con la coda dell'occhio che lavava i piatti della sera prima, ancora in canottiera e calzoncini.
Dal petto gli uscì una voce strozzata, dal tono alto e acuto, come gli veniva sempre quando era emozionato e non riusciva a controllarsi «Amore, amore! Devo dirti una cosa importantissima. Ieri sono stato in banca, e oggi all'agenzia e...»
Lei non gli diede il tempo di finire; lenta ma imprendibile chiuse il rubinetto e si voltò verso di lui. Ebbe solo una frazione di secondo per accorgersi degli occhi arrossati e gonfi che le spiccavano dai contorni delicati del viso. Sembrava una bambola di porcellana dagli occhi verdi che aveva pianto troppo e che era lì lì per andare in frantumi.
«Oggi sei di nuovo uscito senza cellulare», disse, «Verso le dieci e mezza ha chiamato Antonello ed ho risposto. Renzo ha avuto un incidente.»
Di colpo gli mancò il fiato, caddero  e scomparvero tutti i pensieri che aveva accumulato e tenuto stretti a sè nella mezzora di viaggio fino a casa.
In mezzo alla confusione, al ribaltamento mentale che viveva, riuscì a dire solo «Come, dove... Come sta?».
Luna lo guardò con la compassione con cui si guarda un vecchio cane cencioso e abbandonato. Le lacrime tornarono a bagnarle gli occhi, «Verso le nove, con la moto, all'incrocio dei campi sportivi. E' morto».
Stefano cadde in ginocchio in mezzo al corridoio, si strinse la testa fra le mani ed iniziò a singhiozzare e piangere per un tempo che sembrò senza fine.

lunedì 23 aprile 2012

Un nuovo motivo - Parte I

Cambio il blog. L'emigrazione non interessa. Voglio inseguire quello che mi è sempre piaciuto e che non ho mai avuto le palle di affrontare. Adesso voglio scrivere di quello che mi è vitale come l'aria . Ogni settimana pubblicherò un capitolo, e se non le leggerà nessuno non importa. Va fatto e basta. Se avete qualcosa da voler far leggere, fatemelo sapere e pubblichiamo una rubrica.


Ragione (e prefazione)


La morte è una di quelle cose che non capiremo mai finché siamo in vita.
Ci si potrebbero scrivere mille libri sopra, e ci rimarrebbe ancora oscura e inesplorata. 
E' un pò come l'amore, o il comunismo, tutti ne hanno scritto (o hanno pensato di esserlo), ma nessuno l'hai mai capito completamente.
E fa un pò ridere, perché appena iniziamo a pensare, appena non siamo più dei bambini insomma, capiamo che nella vita è proprio questo l'unico approdo sicuro e inamovibile. L'unica cosa che dopo il peccato originale, avremo tutti in comune, senza margine di differenza.
Ed è proprio per questo che ne voglio scrivere, ne devo scrivere. Perché capita che quando qualcuno di caro ci muore, dopo un pò dimentichiamo, ma la sensazione di precarietà, di impermanenza delle cose, quella non la dimentichiamo, non va più via.
E ce la porteremo dentro tutti, finché non chiuderemo gli occhi pure noi.


Cap. I


Remo nella vita di calci in culo ne aveva presi tanti, così tanti da fargli capire subito che quella non sarebbe stata una mattina come le altre. Capita che quando una persona affronta un certo numero di situazioni, capisca al volo quali sono quelle buone e quelle no. Lo percepisce appena poggia il piede fuori dal letto dopo essersi svegliato; dall'aria che discreta, gli passa sottopelle; dal sole che gli batte sulla testa. 
Ed era proprio il sole che non lo convinceva.
Erano soltanto le sette del mattino e non faceva caldo, per essere agosto, ma in cielo non c'era una nuvola, e il sole brillava in un modo così strano da renderlo inquieto.
Una luce forte e fredda che gli si attaccò addosso come uscì di casa.
Gli ricordava quella dei duelli all' «OK Corral» dei film western che vedeva da bambino assieme allo zio, dove quando due pistoleri si affrontavano, era proprio la luce a fare la differenza, e chi l'aveva alle spalle quasi sempre vinceva.
Solo che al posto dell'erba rotolante, davanti a lui passavano macchine, e da qualsiasi parte cercasse di girarsi, gli sembrava di averlo sempre in faccia.
Poteva pensare quanto voleva che quella non fosse la mattina «giusta», che sarebbe stato mille volte meglio voltare le scarpe e tornarsene a letto, sotto il fresco rassicurante delle lenzuola. Ma la verità è che non aveva scelta, e al negozio doveva andarci per forza, che gli andasse oppure no. 
Gli tornò in mente un termine giapponese che aveva letto ai tempi dell'università «Shōganai», che tradotto vuol dire «non avere opzioni. Accettare la cosa così com'è, perché per quanto ti puoi sbattere, deve andare così e basta».
Fu con quello stato d'animo «d'inevitabile» che si incamminò, cupo ed inquieto, attraverso i vicoli in penombra. Non salutò le massaie che sbattevano le coperte alla finestre come era solito fare, e nemmeno salutò l'ottugenaria Sora Maria, che da quando le era morto il marito dieci anni prima, alle otto e mezza in punto andava tutti i giorni a fare le compere da lui, perché a parte il dottore che le curava i reumatismi e le sue colonie di gatti vecchi e rognosi, non aveva nessuno con cui parlare. Affrontò il km a piedi che lo separava dalla bottega tutto d'un fiato, cercando di non pensare a niente e di fare meno rumore possibile, come a non volersi far notare dal destino. 
Non fumò nemmeno, e per lui, da quando aveva iniziato, dopo il caffè era come una religione.
Quando, come sempre alle sette e trenta, arrivò sotto l'insegna della «Premiata macelleria Gentile e figlio» si accorse senza bisogno di aprire la serranda che qualcosa di brutto, terribile e importante, si era guastato. E non sarebbe stato affatto semplice aggiustarlo. Le sensazione che si portava dietro da quando era uscito, gli sgusciò in un lampo da sotto la pelle sin dentro le ossa.

sabato 14 aprile 2012

Diario di un emigrante IV


E' un pò di tempo che non aggiorno. A parte che questo blog non lo commenta nessuno, non avevo novità o pensieri importanti da voler condividere. Non so agli altri migranti come andava dopo quattro mesi all'estero (e mi farebbe piacere saperlo), ma per il momento la vita si è piutosto «assestata». Uso l'avverbio perché naturalmente accade sempre qualcosa di nuovo, tutti i giorni, ma niente di memorabile. Che poi magari il problema, un problema, è proprio questo. Abituarsi all'immemorabile; a una vita, per quanto caduca e precaria, normale.
Fare propria la frase iniziale di Trainspotting
«Scegliete la vita. Scegliete un lavoro. Scegliete una carriera. Scegliete una famiglia. Scegliete un cazzo di televisore gigante. Scegliete lavatrici, automobili, lettori cd e apriscatole elettrici. Scegliete il fai-da-te e di chiedervi chi cazzo siete la domenica mattina. Scegliete di sedervi su un divano, a spappolarvi il cervello, e a distruggervi lo spirito davanti a un telequiz.
E alla fine scegliete di marcire.
Di tirare le cuoia in un ospizio schifoso, appena un motivo di imbarazzo per gli stronzetti viziati ed egoisti che avete figliato per rimpiazzarvi.
Scegliete il futuro.
Scegliete la vita.»

Che tutti abbiamo schifato dall'alto dei nostri diciotto anni.
Eppure Lucio Dalla lo cantava che «l'impresa eccezionale è essere normale».
Non proprio rassegnarsi, piuttosto «rassenerarsi» che se non diventeremo tutti attori, registi, scrittori, non siamo necessariamente dei falliti.
In fondo abitare, vivere all'estero, è già di per se, qualcosa di non comune.
Ogni tanto l'umore vaga fra il triste e l'incazzato, perché è difficile stabilire contatti sociali seri (a meno che uno non voglia scopare e basta, che qui è facile. Ma non è mai stata la mia risposta).
Fra poco la mia migliore amica tornerà in Italia, saranno cazzi amari per me.
Al nuovo lavoro mi trattano benissimo, mi prendono un pò per il culo perché parlo giapponese come un montanaro, ma sono italiano e carino, e questo ai clienti basta.
Mi cucinano tutti i giorni una pasta diversa: è un pò diverso dall'italiano dove lavoravo prima,  che mi metteva la carne di nascosto solo perché doveva dimostare di comandare (bambino!).
Per il resto, noi italiani qui siamo uno stereotipo. Proprio oggi ho parlato con un vecchio giapponese razzista ubriaco. Mi ha detto che l'Italia è piena de monnezza e le strade sono strette, mentre il Giappone è un paese coi controcazzi; mi sono un pò risentito.
Gli ho risposto che se Napoli (senza offesa per nessuno) è così, non vuol dire che tutta l'Italia lo sia.
Di stereotipi ci viviamo tutti. E' una delle forze motrici del mondo.
I rumeni rubano, i negri c'hanno il cazzo grosso, gli americani sono obesi e stupidi, gli italiani pizza e mafia.
E' sbagliato, però è rassicurante.
Pensare di sapere come sono fatti gli altri ci da l'illusione di conoscere noi stessi.
Voglio fare il banale: siamo tutti (creati) uguali e tutti (cresciuti) diversi.
Bisognerebbe avere il coraggio di dirselo, ed ogni volta, ripeterselo.
 Ps. Come la vedo io...