giovedì 7 febbraio 2013

Un nuovo motivo CAP. VI

Ogni volta che finisco di scrivere mi sento riempito e svuotato allo stesso tempo. Ancora di più se non lo faccio da molto. O in questo caso da moltissimo. Ma anche se non sappiamo da che parte stiamo andando, non possiamo smettere di farlo (come sStefano). E' come smettere di respirare, mangiare, amare. Possiamo anche costringerci un periodo, ma torneremo a farlo, altrimenti moriamo. L'importante, lo diceva il gatto del Cheshire, non è dove andare, ma ANDARE (e da qualche parte si arriverà).

Un nuovo motivo CAP.VI (inizio)


Mentre la Vespa lo portava via alla massima velocità che poteva (in realtà meno di 50kmh), Stefano non guardava la strada. Sapeva benissimo di stare scappando, proprio per questo non gli importava dove sarebbe finito; guidava in automatico senza badare ai cartelli stradali che gli sfrecciavano davanti sovrapponendosi alle immagini sfocate che aveva nella testa. Tutto il passato, tutto il passato brutto che riusciva a ricordarsi si accumulava e scontrava fra di sé, frantumandosi e ricomponendosi ciclicamente, pezzo su pezzo. Quando da ragazzino il fratello lo picchiava per il telecomando o solo per dimostrargli che era più forte; le prese in giro che gli rivolgevano fino alla terza media perché era grasso (poi si era alzato all'improvviso diventando magrissimo); la prima ragazza che lo aveva tradito a sedici anni; i fascisti con i quali aveva litigato al liceo e che gli avevano bruciato il motorino; i bambini che non riusciva ad aiutare; i litigi con gli insegnanti; la casa appena presa in affitto e mandata all'aria; l'ultima sera passata assieme ai suoi amici.
Gridò fortissimo.
E più gridava e i polmoni buttavano fuori l'aria carica di ossigeno, più sembrava si riempissero di aria vuota, amarezze, nostalgie. Era come si riempissero di niente. Quando la Vespa inizio a rallentare, si spense e si fermò, era ormai il crepuscolo. La mente senza nessun pensiero, svuotata, solo un incessante rumore di cicale attorno a lui. Si sollevò sul manubrio scuotendo il sedere intorpidito, scese senza mettere il cavalletto lasciando che la moto cadesse naturalmente a terra, si guardò intorno girando su sé stesso di 360 gradi. Da ogni lato guardasse vedeva solo campagna senza fine; nessuna casa, edificio, lampione, la strada asfaltata era finita chissà quanti chilometri prima. Campi e colline fin dove riusciva a mandare lo sguardo.  Non aveva nemmeno pensato alla difficoltà di proseguire il viaggio senza benzina. Lasciò la Vespa sullo sterrato e si accese una sigaretta sedendosi su una pietra vicina al ciglio del sentiero lambito dall'erba. Si addormentò col canto d'amore dei grilli prima di averla finita. Quando si svegliò era buio pesto. Sebbene fosse estate faceva freddo e non aveva niente con cui coprirsi. In più non c'era nessuna luce che gli permettesse di vedere al di là del suo naso; soltanto le stelle erano accese distanti, gli parve di riconoscere la cintura d'Orione in tre piccole che brillavano vicine, ma non ne sapeva niente di astronomia, e se anche lo avesse saputo non gli sarebbe servito a molto potersi orientare se non sapeva dove si trovava. Avrebbe voluto pentirsi: da solo senza benzina, avvolto dal freddo e dal buio, dal silenzio della campagna laziale, dei suoi pensieri muti. Non gliene fregava niente, stava seduto fermo su una pietra e non riusciva a farsi venire un pensiero che credeva valesse la pena trattenere per riscaldarsi un po'. Si limitò ad accendersi un'altra sigaretta. Nella notte densa l'unica cosa che riusciva a vedere era il calore del tabacco che bruciava a intermittenza, come una lucciola, mentre lo aspirava. Per circa due secondi gli parve un pensiero suggestivo, poi tornò a fregarsene anche di quello. Poco prima di arrivare al filtro gli sembrò di sentire un rumore arrivare da qualche parte, poteva assomigliare a quello che farebbe un tamburo battuto ritmicamente; credette di sbagliarsi, che fosse solo colpa della fame, del freddo, del fatto che stava diventando matto. Provò ad ascoltare meglio, tese le orecchie. Non si accorse che il filtro si era consumato e si bruciò le dita lasciando inghiottire la sigaretta consumata dal buio ai suoi piedi. Non poteva sbagliarsi. Era lontano ma lo distingueva bene. Forse non era un tamburo, ma era senza dubbio un suono artificiale, umano. Si alzò ed iniziò a seguire quel rumore, la sua origine, d'istinto. Ben presto le sue gambe si trovarono a camminare in salita, doveva stare percorrendo una collinetta, ma non riusciva a capire concretamente dove andasse, in cielo vedeva soltanto quella che per lui era Orione seguirlo rimanendo immobile. Avanzava in pendenza con l'umido dell'erba che gli penetrava nelle scarpe, gli bagnava i calzini, ogni tanto un sasso lo faceva cadere, sbatteva il muso, anche la maglia e i jeans si bagnavano, si rialzava. Cieco seguiva il ritmo che si faceva più chiaro, più in pendenza. Saliva, cadeva, si faceva male e si rialzava, ogni volta più sporco di terra umida. Proseguiva. L'ultima volta che cadde si accorse che la salita era finita e che la musica era ormai fortissima. Credette di essersi appena svegliato e di essere al centro commerciale di Roma Est la domenica mattina: di fronte a lui un numero smisurato di macchine, cinquantini, scooteroni parcheggiati, spenti, immobili, inchinati riverenti verso il loro tempio. Tutto sommato non gli parve troppo differente dai parcheggi dei centri commerciali. Una costruzione di due piani con finestroni ampi su tutti i lati, forse una fabbrica dismessa, o quello che rimaneva di un'azienda agricola che ormai non esisteva più. Fuori pieno di segni di vita, di bottiglie vuote, buste di plastica, eppure desolato, nessuno andava o veniva, nessuna voce di persone, solo un TUM-TUM-TUM assordante, quello delle discoteche, ma più libero e padrone di decidere il proprio livello del suono. Non c'era mai stato, ma doveva evidentemente essere ad un rave party. E non era nemmeno mai stato in discoteca, se non le rare volte che le sue amiche dell'università ce lo avevano portato quasi per forza promettendogli che conoscevano questo e quello e non avrebbero pagato entrata e consumazioni. Così ogni volta ci andava, guardava gli altri ballare e divertirsi mentre lui pensava solo a bere tutto quello che gli passavano gratis e a chiudersi dentro i suoi pensieri del momento; la mattina dopo, per colpa sua, si svegliava con un mal di testa proporzionato alle cose che aveva bevuto, e questo non faceva altro che aumentare il suo pensiero sulla «malvagità» delle discoteche.
Gli venne un sorriso amaro a pensare che fuggendo da tutto quello che gli faceva paura e sentire costretto, fosse finito nell'ultimo posto dopo pensava potesse, o volesse, finire. Avrebbe potuto voltarsi, tornare indietro, fare la salita-discesa, cadere e reinciampare, addormentarsi vicino la Vespa, aspettare il primo contadino di passaggio e farsi dare uno strappo, un po' di benzina, qualsiasi cosa per tornare a dove era, a chi era prima. Ci sarebbe voluto troppo coraggio. Gli fu molto più semplice abbandonarsi al corso degli eventi e varcare l'ingresso. Aprì le porte e si fece inghiottire dal rumore. Una marea umana si muoveva, ballava, beveva, baciava tutto intorno. Le luci stroboscopiche si accendevano e spegnevano a intervalli psichedelici, senza senso, permettendogli di cogliere solo le schegge disordinate della vita che gli si agitava accanto. In alto gli parve di scorgere una cabina di vetro dalla quale i Dj mettevano su la musica. Restò fermo. L'unica 'cosa' immobile in mezzo al vortice di emozioni confuse e impazzite l'una all'altra, alla musica, all'alcool ed alle droghe, alle pareti, alle persone. Qualcuno lo urtò da dietro facendogli fare un passo in avanti. Non riuscì a fermarsi continuando ad avanzare travolto dall'onda che si muoveva fuori di lui impedendogli di fermarsi. Mosso dalla sete prese un bicchiere ancora mezzo pieno abbandonato vicino al muro dove era stato 'trasportato' (d'altronde per lui le discoteche erano sempre state sinonimo di bere sena pagare) . Dal colore rosa pensò che fosse caipiroska alla fragola, lo portò alle labbra mentre , veniva costretto a muoversi in avanti, ma il sapore non era quello della caipiroska. Era molto alcolico ma non gli ricordava nessun sapore assaggiato prima. Ci stava ancora pensando mentre saliva le scale per il secondo piano. La musica tramutò di colpo, non la techno del primo piano, ma rock anni 70 riarrangiato in modo selvaggio ed ipnotico. Quando salì l'ultimo gradino 'Somebody to love' dei Jefferson Airplane riempì con violenza tutto lo spazio dentro la sua testa.