venerdì 11 maggio 2012

Un nuovo motivo - Capitolo IV (un anno prima) INIZIO




Ieri sono andato bera una birra con gli amici. Oggi a vedere un incontro di Sumo al Tokyo Dome (bello, ma ho dormito metà del tempo, un pò noioso per due ore). Normale. Vita tranquilla. Mi piace questo tipo di serenità. Vivere le cose normalmente, come vengono, giorno per giorno, momento per momento, senza farsi film in testa. Mi ricordo come stavo qualche giorno fa, e mi manca. Ma so che esiste, e questo basta. E bastano pure le birre con gli amici e i panzoni che si menano. Ieri una mia amica, che mi conosce molto bene, m'ha detto che il mio problema più grande era che quando trovo la felicità, ne volevo cercare subito un'altra perché quella che ho non mi bastava mai. Ha ragione. Per fortuna, a volte, le persone sanno cambiare senza nemmeno ragionarci su, accade e basta.


Capitolo IV e torna Stefano. Mi piace scrivere di lui. Mi piace anche Remo. Ma è più oscuro, e quando ne scrivo sopra mi devo calare anche io in un umore, un'esperienza cattiva. E' divertente perché poi ci credo davvero e scrivo con veemenza senza pensarci. Però Stefano è più leggero, e per ora gli voglio più bene :p 
A tutti quelli che mi stanno supportanto va un grande "Grazie", se sta cosa la finirò, se riuscirò a diventare quello che mi immagino, sarà pure per merito vostro. Spero che anche voi facciate così con le vostre vite.




CAP IV (un anno prima)
Man mano che riprendeva familiarità con la sua stanza e con la realtà che viveva fuori la finestra, Stefano si rese conto di essere nudo sotto le lenzuola.
Forse aveva fatto l'amore con Luna, o forse si era spogliato in qualche delirio notturno. Non ricordava. Aveva una macchia sfocata al centro della memoria, e se strizzava gli occhi sforzandosi di ricordare, la testa gli doleva di più, come stesse lì lì per strapparsi in due come un foglio di carta. Rinunciò.
Presa la maglietta con la stampa 'Don't look back in anger' (Luna gliel' aveva regalata al concerto degli Oasis) da terra, s'infilò un paio di mutande pulite ed uscì. Percorreva il corridoio ondeggiando a destra e a sinistra come fosse sul ponte di una nave che imbarca acqua e sta per affondare. Sbatté prima il piede sul comodino abbandonato dal coinquilino in mezzo al corridoio qualche settimana prima (prendeva di continuo mobili mezzi rotti e fatiscenti lasciati fuori i cassonetti, ma finiva che non li usava mai e li lasciava dove capitava per casa. Comunque mai nella sua stanza); poi contro la porta di questo con la spalla. Gli scappò una mezza imprecazione, ma la bocca e la mente erano ancora impastati, non capì nemmeno lui cosa disse. All'interno si sentiva una musica inneggiante i rivoluzionari, forse cilena: gli era partita ancora la radio-sveglia e non l'aveva sentita. Lo faceva spesso da quando aveva iniziato un micro-spaccio fra i suoi amici per fumare gratis. Stefano all'inizio si era arrabbiato perché aveva paura che se i carabinieri lo avessero scoperto, anche lui ci sarebbe finito in mezzo: a diciotto anni lo avevano fermato assieme al Bianco ed Antonello con poco più di due canne in tasca, e dato che c'era pure Renzo, che non aveva mai fumato in vita sua, s'era preso la colpa per tutti.
Poi con Luna avevano deciso di prendersi casa da soli, e aveva lasciato perdere.
In qualche modo arrivò integro fino in cucina. Aveva un bisogno disperato di caffè, e di un'aspirina, ma per come si sentiva non sapeva nemmeno se sarebbe riuscito ad aprire il barattolo del caffè. La vide già sul fornello come un miraggio, con un post-it attaccato sopra.
«Amore, questa mattina sono dovuta andare a lavoro, non mi hanno dato il giorno. Ma esco prima, stiamo un po' insieme, ok? Così se vuoi ti sfoghi, o piangi, comunque ti sono vicina. Non preoccuparti per l'Uni, ho chiamato io il Prof. e gli ho spiegato la situazione, sei esonerato fino a dopodomani.
A proposito, t'ha chiamato il Bianco prima, il funerale è domani alle tre.
Ti ho lasciato la caffettiera già pronta, quando ti ubriachi la sera ti dimentichi come farlo, basta che accendi il gas.
Non fare cazzate mentre sono via.
Ps. Ti amo.»
Stefano staccò il messaggio e l'appoggiò vicino il lavandino, accese il gas e si mise a sedere sul tavolo del corridoio (in cucina non c'era, troppo piccola). S'accese una sigaretta e subito gli risalì la nausea. Continuò a fumarla nonostante il suo fisico non potesse palesemente sopportarla; non voleva stare senza fare niente fino a quando il caffè non fosse salito, altrimenti sapeva si sarebbe messo a pensare. Stava seduto a fumare sprofondato nel tavolo mentre con una mano si reggeva la testa e con l'altra la sigaretta. Da lontano gli parve di sentire le note di 'Imagine' di Jhon Lennon, solo che erano soffocate e gracchianti rispetto a come se le ricordava. Il cellulare stava squillando. Andò in camera, buttò all'aria i cuscini e le lenzuola per trovarlo. Lesse il nome sul display, 'Dario', suo fratello maggiore, dottore affermatissimo nel suo quartiere, laureato in tempo con centodieci, specializzazione, studio, casa con la moglie, tutto pagato da solo (a casa loro da bambini non si faceva la fame, ma non giravano nemmeno tanti soldi. Gli studi lui e il fratello se li erano pagati a metà con i genitori facendo ogni sorta di lavoretto), un uomo tutto d'un pezzo.
Si portavano cinque anni di differenza, e quando da ragazzi facevano a botte per la televisione o il motorino, Stefano le prendeva sempre; ancora non gli andava giù, però rispose. Aveva bisogno di una voce familiare, anche se sgradevole
 «Aò pischelletto! Come va a San Lorenzo? Sempre a fare il morto di fame tardo adolescente?»
«Un pò così... Ieri è morto Renzo»
«Oh caspita. Mi dispiace. Davvero. Ma Renzo era quello pelato o quello con i dread?»
Attaccò. Fece scivolare privo di forze il telefono dalla mano, facendolo cadere in terra. Ventotto anni che si conoscevano e non sapeva nemmeno quali fossero i suoi migliori amici. Forse in quel momento nessuna voce, a parte quella di Renzo, gli sarebbe bastata, ma avrebbe dovuto sapere che quella del fratello sarebbe stata fuori luogo in ogni caso; così abituata a parlare in modo forbito e ridondante ai pazienti, che nemmeno col fratello riusciva ad essere sé stesso (ma Stefano aveva da sempre il dubbio che esistesse davvero un altro Dario dietro quello fatto di apparenze). Si scosse: dalla cucina proveniva odore di bruciato, il caffè.
Rifece il corridoio all'indietro, ma era ancora mezzo ciucco e stordito, invece di prendere la moka per il manico l'afferrò per la base, si bruciò la mano e rovesciò il caffè su tutti i fornelli. Scagliò con rabbia la macchinetta contro il muro e dal petto gli esplose sonoro «Vaffanculo!»; s'appoggiò al muro con la schiena e lo percorse fino a trovarsi seduto per terra a piangere. Non capiva il perché. Più ci pensava più gli sembrava ingiusto. Perché a Renzo? Era da poco andato a vivere con la ragazza, era riuscito a farsi assumere a tempo indeterminato in uno studio di architetti, aveva una famiglia che lo adorava, e i suoi amici pure. Stava realizzando tutti i suoi sogni, che forse erano 'normali', ma comunque non facili da realizzare. E poi il bello di Renzo era proprio la normalità della persona, non banalità, proprio normalità; serenità nel vivere senza cercare quello che non c'è se non nella testa di chi lo cerca, come facevano lui, Antonello e il Bianco.

Di colpo la sua vita gli sembrò piena di limiti. Di minuti non pieni, sprecati.
Renzo era morto facendo ciò che desiderava. E  lui? Appena gli avevano offerto il contratto all'università aveva detto «Si», senza nemmeno pensarci. A lui, figlio di commercianti, di nessuno, laureato fuori corso, non pareva vero di poter accedere alla carriera accademica, a quel mondo che aveva conosciuto solo da studente subendone le angherie e il fascino. Ma era quello che voleva fare davvero? Ci aveva mai pensato tutte le volte che aveva abbassato la testa con i maestri, i presidi che discriminavano i bambini stranieri? Quando doveva leccare il culo ai docenti e andare a fare l'assistente gratis agli esami. Quando aveva preso casa con la ragazza per sentirsi normale, integrato pure lui?
Gridò. Fortissimo. «AHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHH».
La chiave girò nella serratura. Luna lo guardò accovacciato a terra a gridare, in mezzo alla cucina macchiata di caffè.

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