domenica 21 luglio 2013

Capitolo VI (Fine)

Alcune volte mi sento in debito.
Sono in debito.
Quando scrivo mi sento come lo stessi ripagando.
Quando finirò spero che sarò finalmente 'in pari'.

CAPITOLO VI (FINE)

 Si lasciò trascinare come una marionetta di stoffa giù per la rampa di scale e di corsa fuori all'aperto.
Appena le porte del capannone si chiusero alle loro spalle, il livello del rumore del suono si azzerò. Il silenzio d'improvviso. I pensieri di Stefano erano rallentati e al contempo molto più veloci delle parole della ragazza. Gli sembrò che il tempo si fosse raggomitolato su sé stesso e che si trovasse in un silenzio sconosciuto ai suoni, alle persone, solo gli involucri vuoti delle macchine senza nessuno ad abitarle nel folto della notte stellata. Si ricordò di un documentario che aveva visto da bambino: si vedevano gli elefanti africani che rendendosi conto di dover morire presto intraprendevano un lungo viaggio fino a che non arrivavano in un posto nel quale non erano mai stati, pieno di altri elefanti, tutti morti, soltanto le ossa senza niente di vivo a ricoprirle. Gli aveva sempre dato una grande sensazione di solitudine quel ricordo. La ragazza gli tirò il lembo inferiore della maglietta degli Oasis
«Oh, allora!?! Ti muovi o no?», per risposta riuscì solo a mormorare
«... gli elefanti...», senza staccare gli occhi dal cielo.
«Lo dovevo capire subito che eri un tossico... Mannaggia a me e a quando ti ho salvato il culo. Fai come ti pare, se quello ti trova ti ammazza, io me ne vado», voltò le spalle ed iniziò a percorrere la discesa che portava ai capannoni. Stefano la guardò andare via, aveva una canottiera nera aderente , una collanina che alla luce della luna brillava (ma di spalle non riusciva a capire cosa fosse), una gonna colorata lunga fino ai piedi e dei sandali non troppo sofisticati.La carnagione sembrava scura come i capelli, raccolti a cipolla dietro la nuca. Indugiò. Indugiare aveva sempre fatto parte della sua vita. Il momento preciso in cui sai di doverti muovere altrimenti quell'occasione sarà persa per sempre, 'l'ora o il mai più', lui la faceva passare sempre. Lo bloccavano mille insicurezze. Anche quando una ragazza le piaceva aspettava fosse lei a fare la prima mossa. Non era timido, nemmeno pauroso; se veniva stimolato sapeva rispondere a tono, una volta aveva litigato con un signore sul tram perché non faceva sedere una signora anziana con il bastone. Solo non riusciva a decidersi da solo. Con Luna era stato uguale, le faceva mille battute sceme per rendersi simpatico e attaccava bottone appena l'incontrava per caso all'università (che poi il suo 'per caso' era passare mille volte nei posti della facoltà che sapeva frequentare fino a che, per caso, non la trovava), ma era stata lei ad invitarlo a casa sua ai Castelli Romani per farle vedere l'abbazia medievale la prima volta che erano usciti.
Stavolta riuscì a far scattare la molla misteriosa che lo teneva bloccato e a correrle dietro. Forse la paura di finire male era davvero troppo grande. Le corse appresso , la sorpassò e le si piazzò davanti, ansimante
 «No, no aspetta... Vengo, vengo con te... Se ne hai ancora voglia»
Lei lo guardò bene, e dal modo in cui lo faceva si rese conto di non avere una bella cera. Lui la guardò allo stesso modo, e forse proprio per questo doveva sembrare ancora più strano. La collana che la ragazza portava al collo era un piccolo crocefisso d'oro. A parte quello i vestiti, il viso, il modo in cui lo guardava e gli parlava avevano un sapore strano, diverso, orientale.
Gli rivolse uno sguardo ad occhi socchiusi e indagatori, poi si mise improvvisamente a ridere
«Sembri più ubriaco di mio padre quando uno della mia famiglia si sposa. Solo che lui beve per tre giorni. Basta che non mi vomiti nell'apetto. E se provi a fare il furbo sappi che i miei fratelli ti ammazzeranno, e non lo dico per scherzare»
Si girò di nuovo senza aspettare la risposta e si diresse verso la fine della discesa, la seguiva a tre passi di distanza con lo sguardo triste come un cane picchiato per avere fatto la pipì sul tappeto. Dietro un cespuglio c'era un apetto Piaggio celestino, sembrava avere il colore originale, più le parti arrugginite.
«Sali dietro sul rimorchio. Te lo ridico, se devi vomitare ti sporgi. Con questo ci lavoro, chiaro?»
«... Chiaro...»
Salì dietro e mentre metteva in moto cercò di dare un'occhiata dentro, gli parve di vedere una grande quantità di santini, quelli in stile 'guida piano che ti penso', e gli occhi della ragazza che lo cercavano dallo specchietto.
L'apetto scendeva a tutta velocità le stradine di campagna illuminando solo una minuscola parte di sentiero con il fanale anteriore. Eppure guidava con sicurezza come conoscesse a memoria quelle stradine, non frenava nemmeno. Il vento gli passava tra i capelli e lo faceva sentire più rilassato, come se soltanto ora stesse davvero andando via. I muscoli del collo e della schiena gli si rilassarono a tal punto che non poté fare a meno di sdraiarsi e osservare le stelle cambiare prospettiva mentre andavano avanti. Sentì di stare per addormentarsi. Raccolse tutte le energie e prima che gli occhi si chiudessero sull'oblio le chiese
«Ma come ti chiami»
«Eeeeeeeeh?»
«Co-me ti chia-miiii»
«Barbaraaaaaaa»
Poi si addormentò.
Si sveglio la mattina dopo con la luce del sole che gli colpiva una palpebra, e un odore misto di sporco, animali, caffè, piedi e fango.

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