venerdì 28 febbraio 2014

Crisi


07-04-20xx

Perché non hai colto i quadrifogli con me?
E' una cosa semplice, all'apparenza può sembrare anche infantile, immatura.
Però non te ne importava, e nemmeno a me.
Non ci importava, no no, ho sbagliato il tempo; spero importa, di fare cose semplici o immature.
Che poi che è semplice lo dici solo tu. Prima di tutto dobbiamo trovare il tempo di incontrarci, poi cambiare tre bus per lasciarci tutti i palazzi alle spalle. Dobbiamo trovare un posto tranquillo dove non ci siano troppe persone e dal quale si possa vedere il lago e le anatre. Ah, e naturalmente deve essere e mezza via tra il sole e l'ombra per non moririci di freddo e nemmeno di caldo. Poi, finalmente, possiamo sfidarci a chi trova più quadrifogli. E baciarci. Per ognuno che portiamo all'altra, un bacio. Ci regaliamo delle cose a vicenda senza spendere niente, mi piace tanto. E ti ricordi quella domenica di qualche mese fa, quando era pieno di gente meglio vestita di noi che non ci lasciava cercare bene e tu non ne hai trovato nessuno? Ti sei arrabbiato ed hai iniziato ad urlargli contro che era meglio che si andassero a chiudere dentro un centro commerciale, perché noi eravamo impegnati ad innamorarci e il loro essere gente perbene disturbava noi e calpestava i quadrifogli. Mi hai fatto ridere. Ti ho dato dieci baci anche se non c'era bisogno di arrabbiarti e non avevi trovato nessun quadrifoglio.
Stefano, lo sai che i quadrifogli sono una scusa, e che allontanarci dalla città non è un fuga. E' il nostro antidoto alle vie del centro, alle marche sui cartelloni pubblicitari. Il nostro siero contro le persone famose, contro il ciclo fare-per-comprare. E' il nostro elisir di baci.
E' bellissimo quando ci sdraiamo sfiniti di troppi trifogli e ci diciamo in faccia quello che faremo fra qualche tempo, quando ci accorgeremo di quello che vorremo fare.
A me non pare semplice. Secondo me essere così non è semplice. Sarebbe più facile imprigionarci anche noi in un centro commerciale per guardare quello che è di moda, comprarcelo a rate e finirlo di pagare quando anche la moda sarà finita.
Allora spiegami perché l'ultima volta i quadrifogli non li hai voluti cogliere e te ne sei rimasto due ore seduto sul prato ad ubriacarti di birra, senza dire niente.

27-04-20xx
Bella mia, ti scrivo dopo un po' di tempo.
Mi è servito per capire come mi girava in quel periodo. Ho dovuto metabolizzare bene e trovare le parole adatte per spiegarti come voglio. Spero tu non sia troppo arrabbiata con me e mi voglia perdonare. Lo so che parlavi in modo sincero e che le tue parole sono partite tutte dal profondo del cuore. Però i tuoi discorsi poggiano tutti su terreni metafisici. Mi parli di amore, di pensieri, di due anime, le nostre, unite contro l'impero del quieto vivere e del consumismo. Lo sai che la penso come te, però fermarsi a quello è ingiusto. E' ingiusto se non contestualizzi e riporti tutto al periodo in cui è avvenuto. Lo so che avresti voluto rimanere ferma nel nostro mondo d' amore, anche io, ma il mondo se ne frega e continua a girare. Nelle specifico il periodo, il giorno in cui ho smesso di cogliere quadrifogli ed iniziato a bere, girava in un modo di merda.
Me lo ricordo bene, era fine marzo, un paio di giorni prima del tuo compleanno.
Sai che riesco ancora a ricordarmi le scene di quella mattina come se fosse un film?
Davvero, riesco a vedermi camminare dal di fuori come stessi osservando qualcun altro o qualcosa che non appartiene a me. Penso sia normale averlo ancora così nitido nella mente ora, ma...
… ci ho messo comunque qualche tempo per recuperare tutto e sostituirlo ai buchi di memoria che ho avuto. Qualcuno ce l'ho ancora.
Comunque, per il tuo compleanno non hai mai voluto niente. Dicevi che se un giorno non è ben speso, allora ogni momento vale un altro. Per questo andavamo sempre a vedere un posto nuovo per festeggiare: legando quel giorno a quel posto avremmo costruito un ricordo nuovo. Non ho mai capito fino in fondo cos'è che volevi dire: anche andando a cena fuori credo lo avremmo creato, il ricordo. L'ultima volta avrei voluto regalarti una cosa diversa: al parco mi avevi parlato di tutti i 45 giri che avevi trovato nello scantinato di tuo nonno, una collezione grandissima di cantanti italiani, e di come avresti voluto poterli ascoltare per capire che tipo fosse tuo nonno; sentirti un po' come si sentiva lui a venti anni quando li ascoltava, far finta insieme un pomeriggio di essere una giovane coppia degli anni 60 che passava un pomeriggio ad ascoltare vinili di nascosto dai genitori.
L'avevo trovata un'idea bellissima.
Mi ricordo bene il sole che c'era la mattina che sono uscito a cercarti il giradischi d'epoca, di come ti scaldava quando non eri nelle zone d'ombra, e di come il freddo della tramontana ti penetrasse fin dentro lo stomaco quando c'eri. Mi ricordo di aver girato fino a mezzogiorno e mezza, quattro negozi di musica prima di imbroccare quello buono. Di come avessi parlato intimamente col proprietario del regalo che volevo farti, della commozione di poter realizzare il tuo desiderio (inespresso naturalmente, come tutti i tuoi riguardanti le cose materiali); lo avrei fatto sapere anche al conducente del 175 quanto ero felice in quel momento “Oh conducente, oggi ho comprato un giradischi d'epoca alla mia ragazza per ascoltare insieme musica anni 60 e far finta di essere ancora in quegli anni. Ma il traffico non pare un po' meno brutto pure a te oggi?”
Mi ricordo il prezzo che mi ha detto. Di sbrigarmi a prenderlo perché anche un vecchio era venuto a vederlo qualche giorno prima e aveva detto che lo avrebbe comprato appena presa la pensione.
“Non ci credo, lo dici solo per mettermi fretta” gli ho detto, e lui “No ti giuro. Poi a me non mi frega, a chi lo vendo lo vendo. Però sarei più contento di darlo a te. Quello capace che se lo compra e dopo du' giorni schiatta”.
Avrei voluto prenderlo subito, ma non avevo tutti quei soldi.
Mi è scoppiato il mal di testa quando sono uscito dicendogli di tenermelo almeno fino a quando il vecchio non fosse ritornato.
Non era colpa mia ma non potevo farci niente. Sia per il giradischi che per il mal di testa, non potevo farci niente.
Se ero uno studente di 22 anni e non avevo lavoro non era certo colpa mia, ne sono convinto, almeno in parte.
Quando sono uscito faceva più freddo, o così mi ricordo perché la tramontana oltre che dallo stomaco mi entrava pure dalle orecchie. Ho pensato che l'unica soluzione poteva essere chiedere una mano a mio padre. Certo non era proprio il momento migliore visto che aveva dato fondo a tutti i soldi dell'assicurazione per aprire il bar dopo che mia madre era morta nell'incidente.
Forse era stata una follia, ma non mi ero sentito di biasimarlo. Forse buttarsi in un cosa nuova senza avere niente a proteggerlo lo faceva sentire più libero dopo aver perso la cosa più importante per lui.
E poi era proprio bello. Papà è un po' una bestia, selvaggio, con quella barba nera e le poche parole mi è sempre sembrato un diavolo dei boschi. Non so se gli sia venuto naturale o abbia dovuto raschiare ogni frammento di sensibilità che mia madre gli aveva lasciato addosso. Ma alla fine era riuscito a farlo come lo avrebbe fatto lei. C'era mia madre in quel bar, nei tavoli nuovi di noce sbiancata, nelle palme Areca discrete agli angoli, nei quadri dell'avanguardia russa e spagnola appesi ai muri, nella voce rotta dall'alcool di De Andrè e Brassens che usciva dalle casse.
Nella disposizione della macchina del caffè, tazze, bottiglie, tutto si integrava in un unico tipo di natura, tutto si voleva sposare all'altro. Eppure durante il primo mese le cose non stavano andando bene, per niente. Ed io ancora non ti so descrivere bene la rabbia, tristezza, senso d'inadeguatezza che m'ha preso quando sono arrivato e dalle vetrine ho visto mio padre in piedi, immobile col suo grembiule nero davanti alla cassa, al bar vuoto. Dopo tutti i suoi sforzi, e la mamma, e il giradischi, cazzo il giradischi. Poi tutto si è mischiato al mal di testa, m'ha rotto la mente e al suo posto c'ha lasciato un vuoto. Non riuscivo a pensare a niente. Quando t'ho raggiunto questo vuoto m'aveva già quasi mangiato tutto da dentro. Ho bevuto tanto per tentare di colmarlo.
Ecco... Ti ho risposto e ti ho spiegato.
Mi perdoni?


01-07-20xx
Stè, ti continuo a scrivere perché al momento è l'unico modo che ho per mettermi in contatto con te, col tuo vero te. Visto che quando siamo insieme non mi ascolti più, spero almeno tu mi legga quando non lo siamo.
Spiegami che cosa sta succedendo, perché non lo capisco, spiegamelo perché sono triste. Lo so che è difficile trovare lavoro mentre si studia e che il bar di tuo padre non se la sta passando bene. Però non sono buoni motivi per cadere a pezzi. Lo sarebbero, forse, se non ci avessimo l'una con l'altra, però ci siamo, no? Quando uno dei due sta male non può cadere, perché quando inizia ad inclinarsi e a franare verso terra, subito accanto c'è l'altra che lo sostiene, lo tiene in piedi fino a quando non sta meglio e può reggersi da solo. Non dire che sono la solita romantica, non è un fatto d'amore questo, è fisica. Se due oggetti sono posti uno accanto all'altro ed uno dei due comincia ad inclinarsi da un lato (possibilmente quello giusto), se il corpo che gli è accanto riesce ad opporre una forza uguale e contraria lo tiene in piedi, sennò cadono entrambi. Al liceo te l'avevo fatto capire spiegandoti che la terra e la luna si attraggono e respingono con la stessa forza, se uno dei due ci mettesse troppa forza attirerebbe l'altro nella sua orbita ed esploderebbero entrambi. Vorrei non esplodessimo.
Lo so che è difficile, lo è per tutti. Però devi guardare le cose positive che ci sono: certo non puoi permetterti grandi spese in questo momento, ma ti servono? Hai una casa, puoi mangiare tutti i giorni, coltivare i tuoi sogni, costruirti la tua strada lunga e luminosa. Hai me.
Fino a qualche settimana fa avevamo anche questo parco tutto per noi.
Il lago era nostro quando ci facevamo lunghe passeggiate intorno e ci riflettevamo sulla superficie col bel tempo, le papere e le anatre erano nostre quando passavamo mezz'ore a guardarle andare giù e poi riemergere dopo qualche angosciato secondo di troppo dalla parte opposta.
I visoni, le volpi, tutte le bestie morte che stavano appese alle signore bene nel caldo di aprile erano nostre quando le guardavamo e le facevamo le boccacce. In tutte queste cose noi ci appartenevamo. Non tu a me ed io a te, ognuno a se stesso. Eravamo esclusiva proprietà di noi stessi.
Ti scrivo questo perché vorrei tornassi ad appartenerti. Perché quando non ascolti e sei perso nei fantasmi delle tue fantasie, o semplicemente perché sei ubriaco, non sei tuo, sei tuo schiavo.
E sopratutto, davvero, la cosa più importante, non fare mai maimaimaimaimaipiù come la sabato scorso. Perché hai iniziato a tirare pietre alle anatre? Credo che ad una tu abbia spezzato un'ala. Avresti potuto ucciderla, ed ho paura che tu lo sappia.
L'ho detto... ho paura. Smettila e amiamoci e basta.
Ps. Non m'importa non sia stato un bel compleanno. Torna indietro e facciamone un altro.

09-07-20xx
Ero arrabbiato. Ero arrabbiato perché non avevo potuto comprarti il giradischi; per questo ho preso a sassate le anatre. Ti ho raggiunto al parco e tu eri sotto il sole con un cappello di tela beige, una roba da mercatino. Però ci avevi messo qualche margherita che avevi colto poco prima, sorridevi. A ripensarci eri proprio semplice. Una bellezza semplice, senza roba inutile.
Eri una vista incredibile. Un deserto.
Cristo come mi ha fatto incazzare vederti così bella e sapere di non poterti dare quello che io avrei voluto. Di non poterti dare il giradischi per sentire i 45giri di tuo nonno, non poterti portare a cena fuori, non poterti offrire un cono gelato gigantesco solo per sporcarti il naso di panna e ridere insieme.
Tu stavi lì, bellissima e sorridente, ed io non avevo niente.
Lo so, lo so che mi diresti che quello che volevi ce l'avevo già, che era dentro di me.
Però cazzo, la vita è più complessa, non siamo fatti di materia eterea, siamo di carne e ossa. Carne che respira, si nutre, desidera. Il punto della vita, il centro preciso ed esatto non è proprio realizzare i propri desideri prima che finisca lei? Non è questa la vera libertà? Non è finire quello che vogliamo prima di morire? E io questa libertà non ce l'avevo. Volevo esaudire tutti i tuoi desideri. Volevo esaudire il MIO desiderio di esaudire i tuoi inespressi.
Invece noi stavamo fermi. Fermi davanti al lago a vedere passare le papere e le anatre.
A vederle nuotare in acqua senza problemi, senza pensieri, senza cose da dover fare se non quelle che le dettavano l'istinto. Ho provato una gran rabbia.
Perché non devono pagare l'affitto del lago? Perché non devono comprare quello che mangiano? Perché non hanno ricordi da dover dimenticare?
Più ci penso e più mi sembra di essere risucchiato in un buco nero, un buco nero che nasce da dentro di me, che parte dalle budella e mi rivolta dall'interno, mi gira come un guanto e mette la pelle al posto delle ossa e le ossa al posto della pelle e ho i capelli dentro la testa e mi pizzicano tutti come mille spilli e il cervello fuori a contatto con l'aria mi duole e questo buco nero succhia e succhia sempre più forte fino al centro e tutto mi tira tutto mi fa male sono inghiottito da me stesso e non so che fare. E le papere, le maledette papere non pensano a niente, perché perché perché perché perché?
No. No no scusa lascia stare, è stato solo un attimo. Mi sentivo davvero così ma è passato. E' stato tempo fa, adesso sono più leggero.
Però cerca di capire, il bar di mio padre aveva chiuso, non riuscivo a dare esami, non avevo trovato lavoro nemmeno per dare i giornali fuori dalla metro, e sta cazzo di crisi che pare abbia fermato il mondo, i miei amici che piangevano miseria e nel frattempo uno s'era fatto la Dacia nuova con i soldi della pensione del padre, l'altro s'era comprato la Playstation anche se erano tre mesi che non lavorava. E io manco un giradischi usato ti sono riuscito a comprare. Non mi riesce niente. Mi sento un peso per te. Mi sento come se tu sognassi anche per me, perché a me ormai non riesce nemmeno quello.
Ma adesso, adesso ho capito, devo starti vicino, lo devo fare perché tu lo fai. E se ci stiamo vicini non ci possiamo perdere, non possiamo perdere la strada anche se non prendiamo quella giusta. Non possiamo perdere e basta. Non ho ragione? E' in momenti come questi che dobbiamo stringerci. Nei momenti che cambiano tutto il nostro piccolo mondo, noi dobbiamo rimanere uguali.
Conservare le immagini che abbiamo di te e di me.
Per sempre.

Ps. Per favore, rispondi.

11-10-20xx
Sai qual'è stata al liceo la cosa che mi ha fatto interessare a te? Il minidisc...
In quel periodo tutti avevano iniziato ad ascoltare i primi lettori mp3 della Sony o della Creative (nessuno immaginava ancora la bomba atomica culturale che sarebbe stata la Apple per i giovani, e d'altronde quasi nessuno sapeva cos'era o cosa facesse... Come cambiano le cose...)
Tu te ne venivi in classe sempre con le cuffie infilate nelle orecchie e la musica dei Bluvertigo e dei Doors sparata al massimo. Gli altri compagni ti prendevano in giro: i Doors erano passati di moda da troppo tempo, e i Bluvertigo non lo sono mai stati, in più usavi quell'affare strano per ascoltarli, eri un personaggio. Un giorno, durante l'intervallo, tu stavi con la guancia appoggiata sul banco e gli occhi chiusi, la musica ovattata che ti usciva dalle orecchie si impastava alla risa delle ragazze in seconda fila (io stavo in penultima), alle voci scoordinate dei ragazzi che giocavano a calcetto col cancellino. Ma era un'immagine troppo eterogenea perché si amalgamasse davvero, non sembravi far parte della stessa realtà: eri come protetto da una nuvola densa e trasparente che partiva dagli auricolari e ti avvolgeva come una placenta.
Per un attimo mi sembrò che dove eri seduto tu, il tuo corpo, il banco, la sedia, tutto fosse un'immagine ritagliata da un'altra realtà ed appiccicata alla bene e meglio nella nostra. O forse eravamo noi ad essere stati ritagliati ed appiccicati con la saliva sulla tua. Mentre l'intervallo proseguiva disordinato, smisi di parlare con le mie amiche ed attraversai la nuvola.
Ti battei due colpi sulla spalla, ti girasti dall'altra parte emettendo una specie di grugnito. Te ne diedi altri due e tu senza girarti, con la faccia rivolta verso la finestra mi dissi (più o meno, è passato tanto tempo) “Ma che vuoi? Lasciami dormire”.
Non mi perdei d'animo e continuai a picchiettarti la spalla con un ritmo fastidioso, volevo sapere, capire perché ascoltassi un aggeggio così strano e diverso da quello degli altri.
Alla fine riuscii a farti voltare. Avevi ancora le cuffie e mi guardavi con un occhio aperto e uno chiuso, la faccia contorta in un'espressione di attesa indesiderata. Non dicevi niente, io nemmeno, mi guardavi e basta, aspettavi, io pure. Stavi per rimetterti con il viso contro il muro quando presi coraggio e ti chiesi “Com'è che si chiama quella roba che stai ascoltando?”
“Questa roba si chiama “Bluvertigo”, e lo sai benissimo visto che mi prendete tutti per il culo perché sono l'unico ad ascoltarli”, continuavi a tenere l'occhio chiuso e i muscoli del viso tesi in un mezzo broncio.
“No, no lo so chi sono i Bluvertigo, sono andati anche a Sanremo quest'anno no? Volevo sapere con che cosa li stai ascoltando. Non è un lettore cd, e nemmeno uno mp3. Sono curiosa, tutto qui.”
Apristi l'occhio e ti tolsi una cuffia, la smorfia se ne era andata.
“Robbè, è un minidisc, è come un cd, però piccolo”, infilasti la mano nello zaino e ne tirasti fuori quattro o cinque dischetti sporchi di tabacco rivestiti di un involucro rigido di plastica.
“Ah, ho capito, è come un cd in miniatura, però intorno ha la plastica così non si rovina. Vabbè però gli mp3 sono più pratici no? Perché ti sei comprato sto coso? Sembra un po' da sfigati”
“AHAHAHAHAH” esplodesti in un risata, gli altri si fermarono per un attimo a guardarti, Davide, il ragazzo sovrappeso in ultima fila disse “E' pazzo”, poi continuarono le loro cose.
“Nono Robbè, sono gli altri che sono sfigati”, “E perché, scusa?” ti domandai con un tono di sfida.
“Perché sono tutti dei scemi che seguono la moda. Appena esce il giocattolo nuovo devono correre a comprarselo e a farsi fregare i soldi. E' successo con i cellulari qualche anno fa, ti ricordi? I primi usciti erano peggio delle cabine telefoniche e costavano un botto. Adesso stanno cominciando a farli sempre più piccoli e meno costosi. Però comunque se non avevi un cellulare eri uno sfigato. I lettori mp3 costano troppo per quello che offrono. Sono andato a farmi un giro per negozi l'altro giorno e non si trovano a meno di 200 mila per 32 mega di memoria. Ma lo sai quante canzoni ci stanno in 32 mega?”
Ci pensai su, ai tempi avevo un normalissimo lettore cd che leggeva solo dischi originali “Boh, non lo so, un bel po' credo”
“Nono” mi risposi, avevi l'aria di qualcuno che avesse vinto una sfida importante “Nono non ce ne stanno un bel po' manco per niente. Tu sei brava in matematica ed io sono una capra, giusto? Allora aiutami a fare un po' di conti: se un file mp3 ha una grandezza media di 4 mega, quanti canzoni ci stanno su lettore?”
“Boh, non lo so, una decina credo” ti risposi onesta, non avevo ancora finito di pronunciare bene la “O” di “credo” che la tua voce si sovrappose unendosi alla mia “O-A me dieci non bastano. Sai la musica, la musica che uno ha dentro? La musica che siamo, ognuno a modo suo, e che è oltre noi anche se ci sta dentro e nessuno ce la potrà mai strappare? Io me la sogno ogni tanto, tu? Lo abbiamo studiato con Schopenhauer pochi giorni fa, “l'immagine della volontà stessa”. L'immagine della nostra volontà di vivere Robbè! A me per capire sta musica, quella mia, mi serve di sentire quella degli altri. Me ne voglio sentire tanta, perché più ne ascolto più riesco ad aggiungere un pezzetto alla sinfonia infinita che c'ho in testa” avevi gli occhi lucidi e rossi.
Ero perplessa, ma mi attraeva quello che dicevi, come lo dicevi. Non sembravi il classico liceale sinistroide che ripete pieno di enfasi teorie sovversive sentite chissà dove. Ti usciva naturale. Sembravi tu, proprio “tu” a parlare, non qualcun altro, non so, è difficile da spiegare a parole.
Nemmeno tu riuscivi a spiegarti bene, ma anche se per la maggior parte del tempo mi sembrò di stare ad ascoltare un pazzo (quando iniziammo ad uscire la mia amica Anna me lo disse tante volte “Lascialo stare Stefano, quello è matto, ma matto davvero, ti farà passare i guai”, la odiavi. Dicevi “Meglio matti che tristi”), per un attimo, no meno, solo il pezzettino più piccolo ed incalcolabile di un attimo, la sentii anche io la tua “musica”.
Comunque continuammo per un bel po', mi spiegasti che il minidisc aveva un cavo che bastava attaccare ad una radio, stereo, computer o qualsiasi altra cosa, per registrare direttamente, ed in più i dischetti erano riscrivibili, la qualità del suono era migliore, se prendeva un urto la musica non si arrestava e che quindi potevi portarti sempre dietro tutta la musica che volevi. Sembravi un fiume in piena, non ti fermavi più, eri davvero contento di poter spiegare a qualcuno che te lo aveva chiesto quanto in realtà fosse “cool” (per il tuo modo di vedere) quella cosa per la quale ti prendevano tutti in giro. Alla fine suonò la campanella senza nemmeno ce ne accorgessimo.
Prima di tornare al mio banco mi chiesi che musica ascoltavo, ti dissi che mi piacevano molto Carmen Consoli e i Mostly Autumn, anche se erano un gruppo che non avevi mai sentito nominare non facesti una piega, mi dissi solo “Grazie” facendo un gran sorriso. Hai sempre avuto dei bei denti.
Il giorno dopo a ricreazione eravamo seduti al tuo banco ad ascoltarli insieme col tuo minidisc smezzandoci le cuffiette.
Stè, non lo so se davvero ce l'abbiamo questo suono dentro, questo ritmo incredibile di accelerazioni, pause e ripartenze. Non lo so, è tanto difficile ultimamente, è difficile con te, non so più a cosa sia giusto credere. Però una cosa voglio tenerla stretta fino all'ultimo: quando all'inizio ci sdraiavamo sul prato con gli occhi chiusi tenendoci per mano senza dire una parola, quando coglievamo quadrifogli, quando prendevamo in giro le coppie “normali”, quando una notte abbiamo scavalcato il muro del parco, ci siamo spogliati nudi e ci siamo buttati nell'acqua a fare l'amore, in tutti quei momenti voglio credere ancora che da noi partiva una vibrazione, un'onda che si univa a tutte le altre del mondo, si armonizzava e ce ne rendeva parte.
Voglio ancora credere che tu sia rimasto fedele al pazzo che eri in quei giorni e non ti stia perdendo a guardare il lato brutto della vita.
Non voglio credere che l'altra sera tu sia venuto ubriaco, fatto (quelle non erano solo canne...) fuori casa, ti sia arrampicato sul cancello e dimenato urlando e sbattendo come un animale che volevi parlarmi. Non voglio credere che quando mia madre è venuta fuori e ti ha detto di andare via con l'affetto, la dolcezza, di una persona che ti vuole (ha voluto...) bene, tu le abbia dato una spinta rabbiosa, cattiva facendola cadere per terra. Le hai fatto male. Fuori e dentro.
Che posso fare Stè? Che posso fare ormai per noi? Mi rifugio nei ricordi, mi faccio piccola piccola e mi avvolgo nella placenta che ci circondava in quei giorni lontani da tutto ciò che non è più... Ti appoggio la testa sul petto e sento ancora la nostra volontà di vivere che ci batteva lo stesso tempo nel cuore.
Non voglio che Anna abbia ragione.

16-10-20xx
Robbè Robbè Robbè, mia splendida, unica, imperdibile Roberta.
Tu sei la mia anima gemella, tu senti ciò che sento io. La musica c'è ancora. Solo che si sente peggio, è sto mondo di merda pieno di rumore e interferenze che ci fa sbagliare e scambiare un suono per un altro, allora perdiamo il ritmo e facciamo cazzate. Ma la colpa non è mia, capito? Non è MIA.
Lo sai quanto ti amo, quando facevamo, facciamo l'amore e ti sto sopra e mi guardi negli occhi e stai zitta e io pure non dico niente, tutto si armonizza a noi, vive e muore ed è felice e si dispera in funzione di noi, a noi soli che ci capiamo e siamo due come uno.
E in quei momenti non c'è nient'altro, nessun frastuono che inquina quello che sentiamo. E tu lo sai.
Ma poi c'è il resto, c'è fuori il mondo che cerca, tenta con tutte le sue forze di cambiarci e cambiarci per non cambiare lui ed io non ce la faccio più perché il bar di mio padre ha chiuso, e nessuno mi fa lavorare perché non ho esperienza, ma come cazzo me la faccio l'esperienza se non posso cominciare, e sono mesi e mesi che ho le stesse felpe e magliette e mutande e si stanno logorando, mi stanno addosso e ci stiamo logorando e vorremmo smettere ma non abbiamo scelta.
La gente ripete, salmodia come un mantra “la crisi la crisi!”, viviamo tutti in una crisi però vedo ancora tutti desiderare, idolatrare i nuovi telefoni, le macchine, le squadre di calcio, mille facce in tv che si rincorrono abbaiando che con loro cambierà, e non cambia niente.
Comprare, comprare. Cazzo il giradischi. Capito?!? Il giradischi e le mutande. Non è giusto, è questo il rumore, tutto è rumore e non è colpa mia. Vaffanculo a la musica da idioti, alla crisi che avete nel cuore. Io pure VIVO, e voglio continuare a farlo, e voglio comprarti il giradischi e comprarmi diecimila cazzo di mutande nuove tutte con l'elastico perfetto e appena comincia a cedere buttarle via.
Se il mondo fa rumore c'è da fare casino più di lui. Superare il livello consentito, vaffanculo mi farò sentire. Ci faremo sentire.
Ho già trovato il modo.
Mi ricordo che avevo anche io un lettore mp3 nuovo, 64gb, il più grande. Il mejo de tutti. Era qui fino a un attimo fa e non riesco più a trovarlo...
Mi ricordo di te.
Non riesco più a trovarti.
Dove siamo adesso?

20-12-20xx
Dove hai preso tutta la roba che mi hai mandato? Da dove viene il 45 giri, e i fiori, e i vinili? Come li hai comprati? Ti sei messo a spacciare? A rubare? E' questa la fine che pensi di meritarti? Non mi interessa più. Ti ho già mandato indietro tutto. Fra due settimane parto, ho deciso. Mi hanno dato la borsa di studio per fare ricerca a Berlino. Al mese non è molto, ma è quanto basta per andare via .
Via da qui. Via da te.
Stè... ti prego... salvati....
Tua
Roberta

22-12-20xx
Robbè no. Nonononono.
Torna. Tornatornatornatorna. Stringimi ancora. Stringimi per sempre.
Voglio stringerti per sempre.
Dove siamo ADESSO?
TORNA.


25-12-20xx
All'attenzione del sig. Stefano Bianconi
dall'Avv. Ingravallo, legale della famiglia Bastreghi

Con la presente si comunica quanto segue:
La famiglia Bastreghi tutta ha già patito molto a causa della prematura scomparsa della sig.na Roberta Bastreghi avvenuta in Dicembre dello scorso anno.
Sebbene i giudici Le abbiano comminato una pena detentiva pari ad anni ventuno per il reato commesso (non esprimo opinioni a riguardo soltanto per non contravvenire all'articolo n.48 del codice forense), La invito formalmente a non tormentare ulteriormente la suddetta famiglia con missive indirizzate alla scomparsa.
Viceversa sarà interesse della famiglia Bastreghi tutelarsi giuridicamente.
Distinti saluti
Avv. Francesco Ingravallo



APPENDICE

Indice delle date e titoli
Roberta - 07/04/2009 - Quadrifogli
Stefano - 27/04/2010 - Giradischi
Roberta - 01/07/2009 - Fisica
Stefano - 09/07/2010 - Rabbia
Roberta - 11/010/2009 - Mi ricordo
Stefano - 16/010/2010 - Nuova vita
Roberta - 20/05/2009 - Addio
Stefano - 22/12/2010 - Torna
Avv.Ingravallo - 25/05/2010 - Diffida formale


lunedì 21 ottobre 2013

Palazzi - Racconto 02

Palazzi


I

“NO. No aspetta... Che significa? Il corpo inizia a sentire la mancanza. Parte come un malessere rarefatto, un pensiero, uno solo che sfugge al meccanismo caotico e perfetto che oscilla instancabile dentro e fuori te. Parte dal punto più lontano ed estremo, quello insospettabile. Magari all'inizio è solo un impulso anonimo che si muove insieme a tutti gli altri impulsi anonimi che regolano la tua mente. Magari sta andando dallo stomaco a dirti che hai fame, o che vuoi sederti. Poi, come fosse niente, naturalmente, si stacca. Gli altri procedono normalmente e lui si stacca, se ne va. Sembra rapito da una voglia che sembra rabbia, pero' dolce, e lei sta dentro di te e c'è sempre stata. E lui lo sa, la sente, la segue. E se ne va tranquillo e solo e rabbioso e dolce. Se ne va sicuro ma lento, risale tutto il tuo corpo fino alle mani, alla punta delle dita. Perché è li che va sempre, ed è lì che tu sfoghi la tranquillità e la solitudine e la rabbia e la dolcezza...”
Seduto davanti a un caffè pensava, pensava cose senza connessione apparente, senza un legame che fosse possibile spiegare agli altri con parole semplici, se mai ce ne fosse stato il bisogno. Seduto  di notte davanti a un caffè, lasciava fluire i pensieri, li lasciava andare dove gli pareva, dove dovevano andare. Non era un esercizio di stile, non era uno scrittore e non cercava nemmeno di impressionarsi da solo se mai ne avesse avuto uno bello,  geniale. Il pensiero giusto, quello che può elevare una mente mediocre ed illuminarla. Trasmutare in un micronesimo di secondo una mente mediocre in una mediocre che una volta ha avuto un pensiero geniale e dimostrare che Darwin aveva ragione e che l'evoluzione si presenta improvvisa e senza motivo. Non è che sia facile, ma qualche volta capita. Non lo cercava. E non gli piaceva nemmeno scrivere.
Però li scriveva. Tutti.
Pensava e allo stesso tempo scriveva.
“... e vivere qui vicino dev'essere un'agonia. Certo, anche io abito qui vicino ma la zona è più appartata rispetto alla strada principale. Abitare proprio qui su questa strada. Come fa uno ad abitare vicino a questa strada? Voglio dire, è notte e passano un sacco di macchine. Le sento anche da dentro il Cafè, passano musica ed è quasi notte. Magari se sei stanco ti addormenti e non le senti più, ma se ti svegli poi dev'essere dura tornare a dormire. La mattina sarà un inferno. Perché le case non le fanno più lontane dalla strada? Perché non fanno una legge che dica che le strade grandi non possono stare a meno di 'tot' metri dalle case? Perché allora tutti abiteremmo lontano dalle strade e per raggiungerle dovremmo costruire altre strade che però non potrebbero arrivare alle case e tornare sarebbe un casino...
Devo pisciare...”.
Scriveva tutto.
Lo faceva da due anni, da quando aveva trovato lavoro e durante il giorno gli era vietato pensare. Non proprio vietato, ma era meglio non lo facesse, non ne aveva il tempo, e per quello che doveva fare non avrebbe avuto nemmeno senso. Quando lo avevano assunto, la sera, appena finito di lavorare, era uscito nel parcheggio e prima di salire in macchina, mentre infilava la chiave nella serratura, si era sentito stanco. Privato di ogni forza, si era sentito un succo d'arancia  rossa offerto a un bambino viziato che lo aveva succhiato ingordo in un'unica violenta volta. Lo odiava quel bambino viziato. Ha già tutto senza essersi meritato ancora niente, ha due genitori che non si amano e che lo trattano come un cane di lusso, lo ricoprono di giocattoli, uno, due, tre ogni giorno, ci gioca due minuti e poi si annoia, si scorda, si dimentica di loro. I suoi genitori guardano tutti dall'alto in basso e così fai pure lui senza poterselo permettere. Non se lo può permettere perché è un grassoccio bambino viziato che ha tutto e non si merita niente. E gli offrono pure il succo. Almeno succhiami piano, cazzo!
Così si era sentito. Non era una stanchezza fisica, né mentale. Era un senso di svuotamento totale.
Quel giorno aveva guidato fino a quasi casa sua, si era fermato in un Cafè nelle vicinanze che rimaneva aperto 24h, aveva ordinato un caffè e piano piano i pensieri erano tornati nella sua testa. Loro tornavano e lui, per non perderseli, li scriveva. In due anni aveva accumulato sotto al divano letto sul quale dormiva una quantità smisurata di quaderni a righe, quadri, block notes, scontrini scritti sul retro, agende, copertine di libri, bicchieri di carta schiacciati, cartoline, buste da lettere senza lettere, lettere senza buste, banconote, fumetti, cartine per il tabacco... Da quando si metteva seduto in quel Cafè scriveva senza sosta, e smetteva solo quando si sentiva pieno, e tutta la carta che aveva sotto mano era piena di quel che lui era pieno. Allora posava la penna, tornava a non pensare, pagava il conto, usciva dal bar, aspettava che il semaforo diventasse verde, faceva a piedi il minuto, minuto e mezzo, che lo separava da casa, si spogliava, lavava i denti, si metteva a dormire ed il giorno dopo riniziava.
Non aveva un'idea precisa di cosa avrebbe fatto di tutti i milioni di parole che aveva messo sotto il divano letto. Forse un giorno le avrebbe prese e rilette dall'inizio alla fine una per una, avrebbe scelto quelle più belle, sottolineate, ci avrebbe scritto un numerino accanto, le avrebbe ritagliate a poi incollate tutte in fila in ordine numerico. Poteva uscirci la poesia del secolo. “La lunga e compressa poesia dei nostri tempi”. O magari li avrebbe fatti leggere a suo figlio, se mai ne avesse avuto uno. Non lo sapeva nemmeno lui. Naturalmente aveva scritto anche questo.
Tornò dal pisciare. Si rimise a sedere e chinò di nuovo la testa sull'agenda nuova che aveva comprato. C'era Tom Waits disegnato in copertina che fumava, un corvo sulla spalla. Gli piaceva Tom Waits. Non aveva letto niente di suo però aveva visto quella copertina con un tizio cool che fumava guardando l'orizzonte con un corvo sulla spalla. L'aveva presa in mano e sotto al disegno c'era scritto 'Ritratto di Tom Waits'. Quindi gli piaceva Tom Waits. O perlomeno la sua immagine. Poi la risollevò un attimo, si diede un'occhiata intorno. Non c'erano poche persone per essere così tardi. Essendo l'unico Cafè che faceva orario continuato, tutti gli amanti delle ore piccole si riunivano lì. C'erano diversi tavoli con delle poltroncine in vinile rosso e un bancone grande dove le persone si sedevano accanto ed una di fronte all'altra. Però non si vedeva chi c'era davanti  perché era separato a metà da un vetro colorato che impediva di guardarci attraverso. Si intravedevano le sagome. C'erano per lo più ragazzi soli che armeggiavano con l'I-Phone, I-Pod, I-Pad, I-Mac, qualcuno, evidentemente più sfigato e meno alla moda aveva un modello surrogato o un semplice portatile. E stavano tutti chini come stava lui, a farsi i cazzi loro come stava lui, a muovere le dita come le muoveva lui. Li guardò meglio. Prima chi gli sedeva immediatamente a destra e a sinistra. Quello di destra stava aprendo i profili facebook dei suoi amici, apriva, guardava, chiudeva, ne apriva un'altro, commento “:)”, chiudeva, apriva “Che bella che sei”, chiudeva, apriva “Sei na merda... ;)”, chiudeva... Quello a sinistra, che aveva un I-qualche cosa che era nuovo, non lo capiva bene però gli sembrava nuovo, aveva cliccato per sbaglio su una pubblicità che aveva aperto altre tre pagine di pubblicità, e si affannava tentando di chiuderle, aprendo ogni volta che andava sulla 'X' di chiudi, altre tre pagine. Andavano a tre a tre. Si alzò e si fece un giro del bancone. Tutti più o meno impegnati nelle medesime attività, tutti a far scivolare, avvicinare, roteare, picchiettare le dita sugli schermi, ognuno sul suo schermo.
Tornò a sedersi, prese la penna: “Stiamo”, cancella, “Stanno seduti tutti al proprio posto, tutti ordinati, in fila, nel proprio guscio. Sembrano tartarughe. La tartaruga è un animale molto longevo, vive anche più di cento anni, a volte trecento. Eppure non si muove mai, mai mai mai dal proprio territorio. Dalle proprie abitudini, da quello che fa. E' un'animale stanziale: si sveglia la mattina, se ne sta qualche ora a crogiolarsi a sole, a fare niente, a non fare niente. Aspetta che gli si alzi la temperatura e basta. Poi, quando si sente in forze dopo un bagno di sole, si fa un giretto per mangiare. Mangia erbe, radici, insalate, fiori, qualche volta frutta. Se proprio ne sente il bisogno raramente mangia lumache, o altri invertebrati più piccoli di lei. Quando il cibo manca la tartaruga mangia la merda. La sua e quella degli altri. Anche i cani mangiano la merda, però di solito la mangiano perché gli piace. La tartaruga perché non ha altro da mangiare, allora si costringe. Comunque non sono un cane. E non sono una tartaruga. Non voglio essere una tartaruga. Mangio merda, a volte, spesso, quasi sempre, in senso metaforico, s'intende, ma non sono una tartaruga, non voglio essere una tartaruga. Poi dopo mangiato la tartaruga si mette da una parte, in un angolo ben riparato (e se non è ben riparato non importa perché non ha molti predatori in natura), e s'addormenta. Il mattino dopo daccapo. Tutta la vita. Cento anni. Quelle fortunate fino a trecento. Poi muore. Voialtri siete tartarughe. Voi chiusi dentro il  guscio, guscio apatico-anonimo-multiuso. Causa-rimedio-funzione-soluzione della noia-paura. Tu, ragazzo con il berretto di lana firmato sulla testa che smanetti con l' I-coso del cazzo anche se dentro il Cafè c'è il riscaldamento e non ti vede nessuno. Tu sei una tartaruga. Il tuo telefono, il tuo vestito carino, il tuo caffè, il tuo mutismo, i tuoi gesti ripetitivi, le tue cuffie per la musica nelle orecchie, il tuo lavoro, il tuo mangiare, il tuo dormire, il tuo scopare, il tuo morire. Il tuo ripetitivo morire vecchio e stanco e rincoglionito e senza senso. 
NO. No aspetta... Che significa? Non sto facendo lo lo stesso? Non me ne sto pure io seduto, col caffè, con la penna, con la giacca elegante del lavoro, non mi sto facendo i cazzi miei pure io?! Non mangio, dormo, scopo, muoio pure io? Sto dentro al guscio come te, come voi. Allora, in un modo o nell'altro, siamo tutti tartarughe... Però, però se siamo tutti tartarughe, se stiamo tutti avviluppati, aggrappati, stretti ad un guscio perché ci ripara, protegge, fa comodo o quello che è, io voglio essere una tartaruga di mare. Marina. Sarò una tartaruga marina. Sono una tartaruga marina.
Belli miei, c'è una differenza, una sola, ma è grande. Voi ve ne state fermi, siete stanziali. La tartaruga di mare, la caretta-caretta, nasce sulla terra e appena nata si tuffa in acqua, e non ritornerà sulla terraferma se non per deporre le uova, se è femmina, se è maschio non ci tornerà per niente. Gira tutto il mondo, gli scienziati non hanno ancora capito che vie, rotte, segue. Gli hanno messo collari gps di tutti i tipi ma ancora non l'hanno capito. Forse segue la corrente. Forse è intelligente e decide da sola dove andare. Forse è scritto nel DNA, è tutto istinto, e va e basta. Se siamo tutti tartarughe e dobbiamo avere il guscio, io sarò una tartaruga marina. Caretta-caretta. Ciao terricoli, vado a vedere il mondo.”.
Chiuse l'agenda di Tom Waits, calmo, lento, lentolentolento, si alzò, pagò il conto e scese per strada.
Aveva la convinzione che il giorno dopo avrebbe lasciato il lavoro, la macchina, il Cafè, la casa, il divano letto, le parole sotto il divano letto, l'agenda. Il giorno dopo si sarebbe buttato a mare ed avrebbe seguito la corrente, forse lo avrebbe deciso, o ce lo aveva scritto nel DNA. Non era un pensiero, non stava più pensando da quando aveva staccato la penna dal foglio, era una convinzione.
La convinzione gli durò fino a che fu fuori il Cafè, a notte fonda, appoggiato con le spalle al semaforo pedonale aspettando che scattasse il verde per arrivare a casa sua, un minuto, un minuto e mezzo, il tempo che qualcosa lo punse nella parte del collo scoperta fra il bordo della camicia bianca e l'attaccatura dei capelli. Svenne, non lo pensò, svenne.




II

Non sentiva le mani, i piedi, la testa, le gambe, la lingua, il respiro, il dente cariato che gli faceva male da due settimane, il culo.  Non sentiva i suoi pensieri. Era sicuro di esserci, perché c'era, ma non sentiva niente. A discapito che tutti i segnali che non sentiva dicessero il contrario, lui c'era. Era come uno specchio umido dopo una lunga doccia calda; se ci si specchia non si riesce a capire bene se chi è riflesso è il corpo di un bambino, una donna, un giovane, un vecchio, di qualcuno che non siamo noi. Eppure lo siamo. Non si può fare finta di niente solo perché siamo nascosti ai nostri occhi. Cercò di spannarsi come poteva. In primo luogo stabilì che doveva essere sdraiato. Non aveva ancora sensibilità alla schiena per capirlo, ma riusciva a socchiudere gli occhi. Vedeva una luce azzurra scendere dall'alto, quindi doveva essere in orizzontale. Non vide altro, la luce era debole, fredda. Provò a tirare su la testa per guardare dritto davanti a sé. Niente, immobile. Provò allora ruotarla di lato, verso la spalla destra. Non aveva ancora nessuna sensibilità, eppure si mosse. Pensò che dovesse essere in uno stato simile a quando stai tanto tempo seduto in una posizione che renda scomodo lo scorrere del sangue e le gambe ti si addormentano. Non ci sono ma riesci comunque a muoverle.
Vedeva un muro. Quindi era in un luogo chiuso. Una sedia. Una persona sulla sedia. Pensava di vederle. L'intensità della luce era troppo bassa, gli oggetti, le pareti, il soffitto, tutto era ricoperto da una sottile pellicola azzurra appena più luminosa dell'oscurità. Non era una sedia, troppo alta. Forse uno sgabello. Un trono. Le cose che aveva scritto impilate una sull'altra a costruire un trono di carta.
Sentì che riusciva a muovere un dito, la luce si fece più chiara. Era una ragazza, una ragazza seduta su un trono di parole di carta. Le sue parole di carta custodite, conservate, accumulate, dimenticate, sepolte, abbandonate, sbagliate, ritrovate, cancellate, perse, no, nascoste. Stava seduta sulle sue parole nascoste. Adesso lei gliele avrebbe ridate, lui le avrebbe prese e sarebbe partito come la caretta-caretta a perdersi per il mondo senza più timore di doverle nascondere.
Le dita della mano stavano riacquistando sensibilità. Lei gli avrebbe ridato le parole e lui avrebbe di nuovo sentito il sangue scorrere, tornare ad irrorargli il corpo come un fiume caldo che scorreva solo per lui, avrebbe portato ossigeno al cuore, ai muscoli, alle cellule, ai nuclei delle cellule che si dividevano, separavano, riunivano, accrescevano, moltiplicavano un numero infinito di volte, il numero giusto di infinite volte per poi confluire tutti all'origine dei suoi pensieri. La luce si schiarì un altro po'. Non era la luce ad essere debole. Era la vista. La luce era normale. La ragazza si alzò dal suo trono, gli si avvicinò con grazia, armonia, lentezza. Metteva i piedi uno davanti all'altro come se fosse la cosa più naturale del mondo, come se non avessimo dovuto cadere tutti innumerevoli volte prima di imparare a camminare. Ebbe l'idea che la ragazza non avesse mai dovuto farlo ma fosse nata così, nata che sapeva già camminare. Le vide i piedi nudi, e il pavimento sotto di essi che si accorciava con la stessa grazia noncurante, annullando le distanze fra loro. Poi lei fu abbastanza vicina da guardarla bene in viso. Non se n'era accorto ma i capelli erano mori e lunghissimi. Lisci fino all'altezza della spalle per poi arricciarsi in tante piccole onde chiare sulle punte. Gli coprivano per metà la fronte alta e spaziosa. Gli occhi erano grandi e dello stesso colore, leggermente inclinati come quelli degli orientali, o dei gatti, grandissimi. Non in senso assoluto, sembravano grandissimi, spalancati fino alla massima estensione possibile, come se dovessero inghiottire qualche cosa.
Gli fu ad un passo. Lei in piedi, con solo dei pantaloni di jeans da lavoro addosso, il seno piccolo e sodo, i capezzoli della giusta grandezza e densità qui e lì velati dai capelli, lui sdraiato. Si chinò verso il ragazzo sdraiato sotto di lei, i capelli si scostarono rivelando il viso completamente. Era bello, ma ora che lo poteva vedere da vicino aveva qualcosa di strano. La pelle era strana, non era un particolare che aveva potuto notare prima, ma era come squamata. La pelle di un pesce, o di un rettile, o di qualcuno che non in tutta la sua vita non ha mai preso una goccia di sole. La pelle di un frutto marcio.
Adesso sentiva tutte le dita muoversi, il pavimento sotto la schiena, il dente cariato da due settimane.
Tre immagini lo colpirono, insieme, violente, spietate, un pugile peso massimo, una montagna di muscoli contro un peso piuma; il peso massimo che non gli da nemmeno il tempo di capire perché, per quale assurdo motivo sono finiti sullo stesso ring, ci deve essere stato un errore, qualcuno si deve essere sbagliato, SICURAMENTE SI E' SBAGLIATO... SBAM arriva il primo colpo, il sorriso della ragazza, i denti della ragazza, una striscia di ceramica finissima sporcata da anni di macchie di sangue e di merda. Il peso piuma non incassa nemmeno, assorbe tutto l'impatto e le ossa del volto scricchiolano, fanno tanti crickcrickcrick, inizia a roteare su sé stesso due, tre volte, il pubblico pure rotea, lo incita, grida, esulta, ne vuole ancora. Lui non sente, ha già il sangue nelle orecchie, ma forse sta smettendo di girare, sicuro, rallenta SBAM il secondo colpo, le pareti intasate di libri, quattro pareti completamente rivestiti di libri, quattro immense biblioteche al posto delle pareti. Enciclopedie, romanzi, biografie, volumi giganteschi, antichi, recenti, tutto. E riprende a girare e il viso ormai non scricchiola più perché quello che si poteva rompere si è già rotto, e sputa sangue in tutte le direzioni, sembra una fontanella impazzita che gira e gira e sputa sangue e il pubblico lo incita, forse lo incita mentre gira, forse il pubblico gira e lui incita forse SBAM . Tre. Il suo trono di parole nascoste, il suo trono di parole nascoste da ridare, il suo trono di parole nascoste da ridare da riprendere, il suo trono di parole nascoste da ridare da riprendere per partire.
Ossa.
Non sono parole sono ossa.
Non è un sogno sono ossa.
Non gira più.
Avrebbe voluto dire, urlare, piangere qualcosa, non ci riusciva. La ragazza era sopra lui, coi capelli arricciati in schiumette vaporose, col seno denso e piccolo, coi denti marci di anni di sangue e di merda, e non riusciva a dire niente. Tentò di alzarsi ma le gambe erano bloccate, legate da qualche cosa che lo stringeva alle caviglie. Le parole gli morivano in bocca, partivano dai polmoni, attraversavano tutta la laringe cariche disperazione, scivolavano sulla corde vocali vibrando di paura e morivano senza emettere un gemito sui peli della lingua.
Cercò d'istinto l'agenda nuova di Tom Waits, le mani non erano bloccate, poteva scrivere, in qualche modo doveva fare uscire quel terrore che gli moriva dentro, lo doveva allontanare in qualche modo, lo doveva scrivere. Non c'era. Stava in tasca, era sicuro, si era alzato nel Café e ce l'aveva messa.
“Hai perso qualcosa, tartarughina?”, lei disse mentre erano faccia a faccia, mostrando con naturalezza i denti, le labbra squamate, l'alito nauseabondo.
“Forse senza scrivere non riesci ad esprimerti? Poverino, hai senza dubbio qualche problema.”
Davvero avrebbe voluto dire qualcosa, ma non poteva, gli occhi inclinati grandi inghiottivano tutte le briciole della propria coscienza che aveva chiuso da qualche parte per non impazzire o cagarsi sotto.
“Seriamente tartarughina, mi piace quello che scrivi, mi ci ritrovo. Penso che hai ragione, siamo tutti tartarughe, chi più chi meno. Ci nascondiamo tutti, in qualche modo, no? Tu ti nascondi nei pensieri che lasci liberi di andare quando scrivi. Ne ho conosciuti tanti simili a te. Ci sono così tanti modi per non farsi vedere” sorrise emettendo un piccolo suono “Ma tu proprio non vuoi parlare con me? A volte mi sento sola. Fatti coraggio, parliamo un po'”
La guardava, non riusciva a non farlo, e cercava di capire cosa ne avrebbe fatto di lui.
Glielo avrebbe chiesto se solo ci fosse riuscito, ma ansimava rumorosamente, ed anche il semplice respirare gli stava diventando complicato.
“Allora facciamo così, tartarughina. Io adesso faccio così” e dicendolo estrasse un coltello, piccolo, incrostato di sangue dalla tasca dei pantaloni “e se proprio tu non riesci a parlare ti restituisco l'agenda, ok? Quella di Tom Waits. Mi piaceva Tom Waits. Comunque ti restituisco l'agenda così tu ci puoi scrivere sopra. E così comunichi con me. Vorrei proprio sentire quello che hai da dire. Vorrei essere lo scrigno che potrebbe contenere le tue ultime parole, capisci cosa voglio dire? Hai scritto così tanto che non vorrei perdere quelle finali. Lo faccio con tutti. Le scrivo anche io. A volte le rileggo. Comunque spero di no, vorrei tantotanto ascoltare la tua voce”
Si piegò sulle ginocchia, i capelli ondeggiarono sinuosi fino a toccare terra, gli tirò su l'orlo dei pantaloni neri  da impiegato che indossava fino a scoprire il polpaccio. Lui la guardava sdraiato con la testa appoggiata al petto, ansimante. Gli conficcò il coltello nella carne del polpaccio, era tenera e non offriva nessuna resistenza, lo spinse giù per un centimetro, poi fece forza ed iniziò a tagliare disegnando un rettangolo preciso e simmetrico. Il silenzio della lama che tratteggia e gioca con la polpa fu rotta da un urlo fortissimo. Lei staccò il pezzo di carne dalla gamba, lo poggiò sul palmo della mano e iniziò a giocarci rigirandolo con le dita dell'altra. Era stata molto precisa e non perdeva molto sangue, ma gli colava comunque dal buco che aveva lasciato ed il pavimento cominciava a tingersi.  Gli era uscito solo quell'urlo, poi aveva iniziato ad ansimare più forte e la guardava fissa mentre il sangue si andava a depositare per terra e la fronte si riempiva di grosse gocce di sudore che brillavano sotto la luce azzurra. Avrebbe gridato anche di più ma gli era uscito solo quello. Si era concesso solo quel fortissimo, insignificante sfogo e poi le vocali gli erano tornate giù ripercorrendo il percorso all'indietro fino ai polmoni. Lei prese il pezzetto di polpaccio e se lo ficcò in bocca cominciando a masticarlo come fosse una caramella, a bocca aperta e rumorosamente. Lui, ancora sdraiato, si vomitò addosso.
“Peccato... Non vuoi proprio farmi sentire la tua voce eh... Chissà che voce hai, se è bella o brutta... Ma comunque, va bene, scrivi, dai” lo disse con una voce gentile, sorridendo. Gli porse l'agenda e la penna. Lui la prese, sempre guardandola fissa negli occhi, tremante. Scrisse “Io sono una tartaruga di mare, sono una caretta-caretta. Sono nata nel mare. Non morirò qui, morirò nel mare. Ho deciso che sono una tartaruga di mare e devo morire nel mare. Tu non puoi farci niente”.
La ragazza riprese l'agenda e lesse, divertita “Hai proprio ragione, te l'ho già detto, siamo tutti tartarughe. Lo sei tu, lo era quello prima di te, e lo sono io, che mangio le persone. Per capirle le cose le devi studiare, riflettere, poi le devi esternare. Se lasci tutto dentro rimane una cosa morta, mentre noi siamo vivi, seppur tartarughe, siamo vivi. Io ho deciso di rinchiudermi dentro a questo palazzo nel quale non viene mai nessuno. Così io me ne sto chiusa dentro questo guscio grandissimo e mangio le persone. Ho letto tutto del mondo e non voglio averci niente a che fare. Non voglio incontrare altre tartarughe. Me le mangio. Le addormento, le porto qui, e me le mangio. Naturalmente pago le bollette, anche se mi nascondo e mangio le persone, vivo comunque in questo mondo. Non l'ho scelto. Però ho scelto di starmene nel mio guscio ed mangiare gli altri che stanno nascosti nel loro guscio. L'ho deciso io. Tu non puoi farci niente”
Le forze gli mancavano, e fra la droga ancora in circolo ed il sangue perso sentiva di stare per svenire, però continuava a guardarla fissa, cercando di vincere quegli occhi che inghiottivano tutto.
“Però dici che sei diverso. Sei una testuggine marina. Che ha trovato il coraggio di lasciare il suo angolino di terra e gettarsi in mare per non tornare mai più... Allora non ti fermo. Vai. Se riesci a dirmi una parola sei libero di gettarti nel blu che hai immaginato. Nel blu che esiste solo nella tua testa, nelle storie che hai scritto e in cui ti sei crogiolato per due anni cercando di cambiare senza fare niente. Non sei diverso da me.
Dimmi una parola. UNA” la ragazza urlò “UNA CAZZO DI PAROLA” si calmò “che ti convinca. Deve convincere te, non me, te. Che ti convinca al 100% in ogni fibra di ciò che ti compone che tu sei davvero quella cosa diversa da noi che dici di essere e ti lascio andare. Chi sono per impedirtelo? Sono un'altra tartaruga come te...”
Sorrise.

domenica 21 luglio 2013

Capitolo VI (Fine)

Alcune volte mi sento in debito.
Sono in debito.
Quando scrivo mi sento come lo stessi ripagando.
Quando finirò spero che sarò finalmente 'in pari'.

CAPITOLO VI (FINE)

 Si lasciò trascinare come una marionetta di stoffa giù per la rampa di scale e di corsa fuori all'aperto.
Appena le porte del capannone si chiusero alle loro spalle, il livello del rumore del suono si azzerò. Il silenzio d'improvviso. I pensieri di Stefano erano rallentati e al contempo molto più veloci delle parole della ragazza. Gli sembrò che il tempo si fosse raggomitolato su sé stesso e che si trovasse in un silenzio sconosciuto ai suoni, alle persone, solo gli involucri vuoti delle macchine senza nessuno ad abitarle nel folto della notte stellata. Si ricordò di un documentario che aveva visto da bambino: si vedevano gli elefanti africani che rendendosi conto di dover morire presto intraprendevano un lungo viaggio fino a che non arrivavano in un posto nel quale non erano mai stati, pieno di altri elefanti, tutti morti, soltanto le ossa senza niente di vivo a ricoprirle. Gli aveva sempre dato una grande sensazione di solitudine quel ricordo. La ragazza gli tirò il lembo inferiore della maglietta degli Oasis
«Oh, allora!?! Ti muovi o no?», per risposta riuscì solo a mormorare
«... gli elefanti...», senza staccare gli occhi dal cielo.
«Lo dovevo capire subito che eri un tossico... Mannaggia a me e a quando ti ho salvato il culo. Fai come ti pare, se quello ti trova ti ammazza, io me ne vado», voltò le spalle ed iniziò a percorrere la discesa che portava ai capannoni. Stefano la guardò andare via, aveva una canottiera nera aderente , una collanina che alla luce della luna brillava (ma di spalle non riusciva a capire cosa fosse), una gonna colorata lunga fino ai piedi e dei sandali non troppo sofisticati.La carnagione sembrava scura come i capelli, raccolti a cipolla dietro la nuca. Indugiò. Indugiare aveva sempre fatto parte della sua vita. Il momento preciso in cui sai di doverti muovere altrimenti quell'occasione sarà persa per sempre, 'l'ora o il mai più', lui la faceva passare sempre. Lo bloccavano mille insicurezze. Anche quando una ragazza le piaceva aspettava fosse lei a fare la prima mossa. Non era timido, nemmeno pauroso; se veniva stimolato sapeva rispondere a tono, una volta aveva litigato con un signore sul tram perché non faceva sedere una signora anziana con il bastone. Solo non riusciva a decidersi da solo. Con Luna era stato uguale, le faceva mille battute sceme per rendersi simpatico e attaccava bottone appena l'incontrava per caso all'università (che poi il suo 'per caso' era passare mille volte nei posti della facoltà che sapeva frequentare fino a che, per caso, non la trovava), ma era stata lei ad invitarlo a casa sua ai Castelli Romani per farle vedere l'abbazia medievale la prima volta che erano usciti.
Stavolta riuscì a far scattare la molla misteriosa che lo teneva bloccato e a correrle dietro. Forse la paura di finire male era davvero troppo grande. Le corse appresso , la sorpassò e le si piazzò davanti, ansimante
 «No, no aspetta... Vengo, vengo con te... Se ne hai ancora voglia»
Lei lo guardò bene, e dal modo in cui lo faceva si rese conto di non avere una bella cera. Lui la guardò allo stesso modo, e forse proprio per questo doveva sembrare ancora più strano. La collana che la ragazza portava al collo era un piccolo crocefisso d'oro. A parte quello i vestiti, il viso, il modo in cui lo guardava e gli parlava avevano un sapore strano, diverso, orientale.
Gli rivolse uno sguardo ad occhi socchiusi e indagatori, poi si mise improvvisamente a ridere
«Sembri più ubriaco di mio padre quando uno della mia famiglia si sposa. Solo che lui beve per tre giorni. Basta che non mi vomiti nell'apetto. E se provi a fare il furbo sappi che i miei fratelli ti ammazzeranno, e non lo dico per scherzare»
Si girò di nuovo senza aspettare la risposta e si diresse verso la fine della discesa, la seguiva a tre passi di distanza con lo sguardo triste come un cane picchiato per avere fatto la pipì sul tappeto. Dietro un cespuglio c'era un apetto Piaggio celestino, sembrava avere il colore originale, più le parti arrugginite.
«Sali dietro sul rimorchio. Te lo ridico, se devi vomitare ti sporgi. Con questo ci lavoro, chiaro?»
«... Chiaro...»
Salì dietro e mentre metteva in moto cercò di dare un'occhiata dentro, gli parve di vedere una grande quantità di santini, quelli in stile 'guida piano che ti penso', e gli occhi della ragazza che lo cercavano dallo specchietto.
L'apetto scendeva a tutta velocità le stradine di campagna illuminando solo una minuscola parte di sentiero con il fanale anteriore. Eppure guidava con sicurezza come conoscesse a memoria quelle stradine, non frenava nemmeno. Il vento gli passava tra i capelli e lo faceva sentire più rilassato, come se soltanto ora stesse davvero andando via. I muscoli del collo e della schiena gli si rilassarono a tal punto che non poté fare a meno di sdraiarsi e osservare le stelle cambiare prospettiva mentre andavano avanti. Sentì di stare per addormentarsi. Raccolse tutte le energie e prima che gli occhi si chiudessero sull'oblio le chiese
«Ma come ti chiami»
«Eeeeeeeeh?»
«Co-me ti chia-miiii»
«Barbaraaaaaaa»
Poi si addormentò.
Si sveglio la mattina dopo con la luce del sole che gli colpiva una palpebra, e un odore misto di sporco, animali, caffè, piedi e fango.

martedì 28 maggio 2013

Mai fermarsi. Nemmeno quando ci si sente a posto e di potersi fermare. Don't stop me now.

continuo...
La scena che si mostrò ai suoi occhi non differiva in sostanza da quella del piano inferiore,  cambiava l'apparenza: invece di ragazzi con la camicia aperta fino al terzo bottone e improbabili collane di metallo e ragazze con minigonne di strass e camicie aperte fino al terzo bottone, i ragazzi indossavano t-shirt con il simbolo dell'anarchia, Che-Guevara, Sex Pistols, e le ragazze canotte di ogni colore e gonne lunghe sino alle caviglie che raccontavano di un'India made in China. L'anima pulsante però era la stessa: corpi stretti, legati, ammassati uno sull'altro in cerca di evasione, divertimento, sesso, ribellione, di qualcosa che non tutti avrebbero saputo dire. Stefano si sentiva spaesato, la vista offuscata che andava e veniva in sincro con le luci stroboscopiche. Di colpo si sentì mancare le forze, come quando una volta d'estate stava andando a lavoro dopo una brutta febbre sulla quale aveva bevuto, e nel vagone della metro A, schiacciato dalla gente, iniziò a sudare freddo e collassò senza preavviso. Quella volta Luna era con lui. Si appoggiò con la schiena al muro e si lasciò scivolare verso il pavimento fino a sedersi. L'alcool, o quello che c'era dentro, stava decisamente facendo effetto. Senza volerlo, nello sforzo per non chiudere gli occhi e perdere conoscenza, si fissò su un punto. Lo stesso punto nel quale stava ballando una ragazza. Cercò di metterla a fuoco. Era una ragazza abbastanza normale: capelli lunghetti tenuti all'indietro da una fascia, occhiali da vista non troppo ricercati, naso leggermente a patata, maglia bianche a maniche lunghe, pantaloni a zampa. Però si accorse che in un quadro così comune, ordinato, quasi rassicurante nella sua spogliatezza c'era una cosa terribilmente fuori posto: ballava da sola. Ballava dasola e si guardava intorno in cerca di qualcosa, un segno, qualcuno che si accorgesse che c'era anche lei. Nella mente impastata dal cocktail, Stefano non sapeva se provare tenerezza o rabbia per quella ragazza. Se essere triste perché nessuno se la filava, o incazzarsi perché anche lei cadeva nel giochetto di dover per forza trovare qualcuno da filare in quel posto che tutto sembrava tranne il luogo adatto per stringere rapporti umani e mostrarsi un po' senza doversi esibire. Ne avesse avuto la forza, fosse stato ancora un ragazzo sicuro delle cose in cui crede, della propria casa, lavoro, amore; si sarebbe alzato, le sarebbe andato vicino e le avrebbe urlato nelle orecchie «Che cazzo ci fai qui? Che stai cercando? Ma non lo vedi che non è il posto per te, che fai il loro gioco? Lasciali stare, vattene, fuggi prima di diventare come loro!».
«Già, ma loro chi?» pensò, «E chi cazzo mi credo di essere io, seduto nell'inutilità totale a pensare ai problemi degli altri quando non riesco nemmeno a sfiorare i miei. D'altra parte qual'è il punto? Che questa vuole soltanto qualcuno che la scopi così si sentirà più carina e per una notte dimenticherà le sue insicurezze? Che società di merda abbiamo tirato su. La società dell'apparenza, del mio uccello è più grande del tuo, del niente. Siamo pieni di niente. Non m'importa. Che si facesse fottere, che si fotta...!»
Mente si perdeva nel suo monologo alcolico guardava nel vuoto, come i gatti quando si fissano a guardare qualcosa che riescono solo loro, soltanto che lo sguardo era ancora rivolto alla ragazza. La musica era cambiata, un remix più frenetico e veloce di 'We will rock you' dei Queen. Si ritrovò sovrastato da una figura che lo osservava in piedi, dall'alto. Con gli occhi socchiusi alzò a fatica la testa per guardare chi fosse. Era una ragazzo imponente, rasato, grande. Un piercing alle narici, qualche crosta sulla fronte. Gli sembrava un fascista ma più probabilmente era un punkabbestia, solo che senza un cane appresso gli faceva strano.
«Che cazzo c'hai da guardare così la mia amica?!»
Stefano chiuse un occhio, cercò di concentrare la poca energia rimasta in uno solo. Prima di rispondergli aveva già ben chiaro che quello cercava rogna e che l'avrebbe pestato a sangue senza pensarci due volte, e forse in quel momento lui cercava proprio quello.
Aprì la bocca facendo uscire piano le parole, cercando di scandirle bene
«Ah si eh... E' amica tua... Non mi sembrava... E' un'amicizia di lunga data, vero? E poi che è? Vietato guardare sennò il punkabbestia si incazza?»
«Oh ma guarda questo! Adesso giuro che ti sfondo! Che cazzo te ne frega a te se la conosco da dieci anni o l'ho conosciuta stasera?!»
Stefano continuava a guardarlo con un occhio solo, si sentiva un pirata che sfida la grande tempesta per conto suo, come il gatto che aveva da bambino.
«Bè, bell'amico però. Proprio bravo che la lasci da sola come una cretina mentre ti vai a calare di acidi con gli amici tuoi. Bella merda!»
L'altro non rispose, stava già facendo scattare la gamba per piantare l'anfibio dritto nei denti di Stefano. Probabilmente quelli davanti glieli avrebbe fatti saltare tutti. Invece ci fu un rumore di bottiglia che va in pezzi e il tonfo del punkabbestia che cadeva per terra.
Si sentì afferrare il polso, «Dai scemo, alzati, muoviti!Sennò qui ci ammazzano tutti e due!»

giovedì 7 febbraio 2013

Un nuovo motivo CAP. VI

Ogni volta che finisco di scrivere mi sento riempito e svuotato allo stesso tempo. Ancora di più se non lo faccio da molto. O in questo caso da moltissimo. Ma anche se non sappiamo da che parte stiamo andando, non possiamo smettere di farlo (come sStefano). E' come smettere di respirare, mangiare, amare. Possiamo anche costringerci un periodo, ma torneremo a farlo, altrimenti moriamo. L'importante, lo diceva il gatto del Cheshire, non è dove andare, ma ANDARE (e da qualche parte si arriverà).

Un nuovo motivo CAP.VI (inizio)


Mentre la Vespa lo portava via alla massima velocità che poteva (in realtà meno di 50kmh), Stefano non guardava la strada. Sapeva benissimo di stare scappando, proprio per questo non gli importava dove sarebbe finito; guidava in automatico senza badare ai cartelli stradali che gli sfrecciavano davanti sovrapponendosi alle immagini sfocate che aveva nella testa. Tutto il passato, tutto il passato brutto che riusciva a ricordarsi si accumulava e scontrava fra di sé, frantumandosi e ricomponendosi ciclicamente, pezzo su pezzo. Quando da ragazzino il fratello lo picchiava per il telecomando o solo per dimostrargli che era più forte; le prese in giro che gli rivolgevano fino alla terza media perché era grasso (poi si era alzato all'improvviso diventando magrissimo); la prima ragazza che lo aveva tradito a sedici anni; i fascisti con i quali aveva litigato al liceo e che gli avevano bruciato il motorino; i bambini che non riusciva ad aiutare; i litigi con gli insegnanti; la casa appena presa in affitto e mandata all'aria; l'ultima sera passata assieme ai suoi amici.
Gridò fortissimo.
E più gridava e i polmoni buttavano fuori l'aria carica di ossigeno, più sembrava si riempissero di aria vuota, amarezze, nostalgie. Era come si riempissero di niente. Quando la Vespa inizio a rallentare, si spense e si fermò, era ormai il crepuscolo. La mente senza nessun pensiero, svuotata, solo un incessante rumore di cicale attorno a lui. Si sollevò sul manubrio scuotendo il sedere intorpidito, scese senza mettere il cavalletto lasciando che la moto cadesse naturalmente a terra, si guardò intorno girando su sé stesso di 360 gradi. Da ogni lato guardasse vedeva solo campagna senza fine; nessuna casa, edificio, lampione, la strada asfaltata era finita chissà quanti chilometri prima. Campi e colline fin dove riusciva a mandare lo sguardo.  Non aveva nemmeno pensato alla difficoltà di proseguire il viaggio senza benzina. Lasciò la Vespa sullo sterrato e si accese una sigaretta sedendosi su una pietra vicina al ciglio del sentiero lambito dall'erba. Si addormentò col canto d'amore dei grilli prima di averla finita. Quando si svegliò era buio pesto. Sebbene fosse estate faceva freddo e non aveva niente con cui coprirsi. In più non c'era nessuna luce che gli permettesse di vedere al di là del suo naso; soltanto le stelle erano accese distanti, gli parve di riconoscere la cintura d'Orione in tre piccole che brillavano vicine, ma non ne sapeva niente di astronomia, e se anche lo avesse saputo non gli sarebbe servito a molto potersi orientare se non sapeva dove si trovava. Avrebbe voluto pentirsi: da solo senza benzina, avvolto dal freddo e dal buio, dal silenzio della campagna laziale, dei suoi pensieri muti. Non gliene fregava niente, stava seduto fermo su una pietra e non riusciva a farsi venire un pensiero che credeva valesse la pena trattenere per riscaldarsi un po'. Si limitò ad accendersi un'altra sigaretta. Nella notte densa l'unica cosa che riusciva a vedere era il calore del tabacco che bruciava a intermittenza, come una lucciola, mentre lo aspirava. Per circa due secondi gli parve un pensiero suggestivo, poi tornò a fregarsene anche di quello. Poco prima di arrivare al filtro gli sembrò di sentire un rumore arrivare da qualche parte, poteva assomigliare a quello che farebbe un tamburo battuto ritmicamente; credette di sbagliarsi, che fosse solo colpa della fame, del freddo, del fatto che stava diventando matto. Provò ad ascoltare meglio, tese le orecchie. Non si accorse che il filtro si era consumato e si bruciò le dita lasciando inghiottire la sigaretta consumata dal buio ai suoi piedi. Non poteva sbagliarsi. Era lontano ma lo distingueva bene. Forse non era un tamburo, ma era senza dubbio un suono artificiale, umano. Si alzò ed iniziò a seguire quel rumore, la sua origine, d'istinto. Ben presto le sue gambe si trovarono a camminare in salita, doveva stare percorrendo una collinetta, ma non riusciva a capire concretamente dove andasse, in cielo vedeva soltanto quella che per lui era Orione seguirlo rimanendo immobile. Avanzava in pendenza con l'umido dell'erba che gli penetrava nelle scarpe, gli bagnava i calzini, ogni tanto un sasso lo faceva cadere, sbatteva il muso, anche la maglia e i jeans si bagnavano, si rialzava. Cieco seguiva il ritmo che si faceva più chiaro, più in pendenza. Saliva, cadeva, si faceva male e si rialzava, ogni volta più sporco di terra umida. Proseguiva. L'ultima volta che cadde si accorse che la salita era finita e che la musica era ormai fortissima. Credette di essersi appena svegliato e di essere al centro commerciale di Roma Est la domenica mattina: di fronte a lui un numero smisurato di macchine, cinquantini, scooteroni parcheggiati, spenti, immobili, inchinati riverenti verso il loro tempio. Tutto sommato non gli parve troppo differente dai parcheggi dei centri commerciali. Una costruzione di due piani con finestroni ampi su tutti i lati, forse una fabbrica dismessa, o quello che rimaneva di un'azienda agricola che ormai non esisteva più. Fuori pieno di segni di vita, di bottiglie vuote, buste di plastica, eppure desolato, nessuno andava o veniva, nessuna voce di persone, solo un TUM-TUM-TUM assordante, quello delle discoteche, ma più libero e padrone di decidere il proprio livello del suono. Non c'era mai stato, ma doveva evidentemente essere ad un rave party. E non era nemmeno mai stato in discoteca, se non le rare volte che le sue amiche dell'università ce lo avevano portato quasi per forza promettendogli che conoscevano questo e quello e non avrebbero pagato entrata e consumazioni. Così ogni volta ci andava, guardava gli altri ballare e divertirsi mentre lui pensava solo a bere tutto quello che gli passavano gratis e a chiudersi dentro i suoi pensieri del momento; la mattina dopo, per colpa sua, si svegliava con un mal di testa proporzionato alle cose che aveva bevuto, e questo non faceva altro che aumentare il suo pensiero sulla «malvagità» delle discoteche.
Gli venne un sorriso amaro a pensare che fuggendo da tutto quello che gli faceva paura e sentire costretto, fosse finito nell'ultimo posto dopo pensava potesse, o volesse, finire. Avrebbe potuto voltarsi, tornare indietro, fare la salita-discesa, cadere e reinciampare, addormentarsi vicino la Vespa, aspettare il primo contadino di passaggio e farsi dare uno strappo, un po' di benzina, qualsiasi cosa per tornare a dove era, a chi era prima. Ci sarebbe voluto troppo coraggio. Gli fu molto più semplice abbandonarsi al corso degli eventi e varcare l'ingresso. Aprì le porte e si fece inghiottire dal rumore. Una marea umana si muoveva, ballava, beveva, baciava tutto intorno. Le luci stroboscopiche si accendevano e spegnevano a intervalli psichedelici, senza senso, permettendogli di cogliere solo le schegge disordinate della vita che gli si agitava accanto. In alto gli parve di scorgere una cabina di vetro dalla quale i Dj mettevano su la musica. Restò fermo. L'unica 'cosa' immobile in mezzo al vortice di emozioni confuse e impazzite l'una all'altra, alla musica, all'alcool ed alle droghe, alle pareti, alle persone. Qualcuno lo urtò da dietro facendogli fare un passo in avanti. Non riuscì a fermarsi continuando ad avanzare travolto dall'onda che si muoveva fuori di lui impedendogli di fermarsi. Mosso dalla sete prese un bicchiere ancora mezzo pieno abbandonato vicino al muro dove era stato 'trasportato' (d'altronde per lui le discoteche erano sempre state sinonimo di bere sena pagare) . Dal colore rosa pensò che fosse caipiroska alla fragola, lo portò alle labbra mentre , veniva costretto a muoversi in avanti, ma il sapore non era quello della caipiroska. Era molto alcolico ma non gli ricordava nessun sapore assaggiato prima. Ci stava ancora pensando mentre saliva le scale per il secondo piano. La musica tramutò di colpo, non la techno del primo piano, ma rock anni 70 riarrangiato in modo selvaggio ed ipnotico. Quando salì l'ultimo gradino 'Somebody to love' dei Jefferson Airplane riempì con violenza tutto lo spazio dentro la sua testa.

martedì 9 ottobre 2012

Su Tokyo e sull'Italia (di getto, e riflettuto)

Su Tokyo e sull'Italia (di getto, e riflettuto)

La cosa che m'ha sempre terrorizzato di Tokyo (che ho realizzato soltanto dopo essere tornato da un breve soggiorno in Italia) è la sua mancanza di tempo.

Non di un tempo materiale (se un tempo materiale possa mai esistere), ma la totale privazione di riferimenti passati e futuri. In un città dove tutti si legano l'orologio al polso e l'arrivo di ogni treno è regolato al secondo (mai sperare nei ritardi, a Tokyo), c'è un solo tempo valido sempre, che pende come un imperativo sulle nostre teste: il presente.
In un'Italia come quella di oggi, quella che si legge sui giornali almeno, il futuro è una cosa difficile da dire. L'italiano, quello buono (e sono pochi) è intelligente e passionale, dategli un'idea, rendetela ideale e dedizione; solleverà il mondo, lo scaraventerà oltre la crisi, le olgette, le partite di pallone.
Salterà come un grillo superando tutto e portandoci con lui.
Qui ci invidiano per Leonardo, Rossini, Caravaggio, ma ai tempi non ero nemmeno un prototipo di vita per i miei genitori, e in tempi più recenti ho piacere, e traggo forza, a ricordare Fellini, Pasolini, Giolitti, Falcone e Borsellino.
Persone che avevano tratto l'ideale da un'idea.
Però persone così nascono a caso, non c'entrano i tempi, le guerre, i natali, Berlusconi; o meglio, c'entra tutto e non c'entra niente, è un'insieme di coincidenze estremamente fortunate. Quello che sarà di noi (voi?) non si può predire.
Il futuro di Tokyo invece lo vedo chiaro e netto ogni volta che guarda i tabelloni luminosi di Shibuya, l'incrocio più famoso al mondo, acceso 24h su 24.

E' un presente stirato all'indietro e dilaniato in avanti, senza fine.

Questo posto non ha storia, è giovane, giovane come un diciottenne che brucia dentro, e brucia chi è accanto a lui perché è forte, e bello, e non vede il limite delle sue reali possibilità. Tokyo s'è bruciata, e sta bruciando, per potenza e strafottenza.
E' un'isola nell'isola. Un vampiro che si nutre dei suoi abitanti, altri vampiri (più deboli e inconsapevoli) che si nutrono di lei.
Chiedetelo ai gaijin (stranieri) che abitano qui, a chi prova a campare davvero con le proprie sole forze, che discorso assurdo sia la programmazione del futuro prossimo, del giorno dopo, della serata; ciò che conta è il presente.
Chiedetelo ai salary man ( impiegati), cuochi, insegnanti, avvolti da giorni tutti uguali, dissolti e disintegrati in una ripetività che porta ad amanti, prostitute, suicidi, e a volte, a prospettive che ti cambiano la vita.
La grandezza  di Tokyo si erge sullo stoicismo di chi la vive, e il benessere di chi la abita sulla città stessa.

Che non pensa, non incontra, non crea niente, se non per l'ora, l'adesso immantinente.
Tokyo, come le formiche, non dorme mai.




venerdì 17 agosto 2012

Un nuovo motivo-Cap V- (FINE)

Capitolo finito. Un nuovo personaggio (molto particolare). Ora inizia il bello.
E' passato un po' di tempo dall'ultimo post.
Ci metto quello che mi serve, ma non smetto.
Non smetterò mai, credo.

Un nuovo motivo -CapV -FINE



C'era qualcosa negli occhi di quell'uomo che turbò tutti e tre lasciandoli senza una parola buona con la quale rispondergli.
Era la posa, la garza sporca, la barba incolta, ma erano gli occhi, gli occhi sopra ogni cosa. Erano verde chiaro, ma in qualche modo «spenti», come se qualcuno gli avesse invertito l'interruttore e invece di riflettere la luce, la assorbissero.
Più che spenti sembravano proprio funzionare al contrario.
Ebbero la sensazione condivisa di venire risucchiati assieme al giorno, e alla stanza, a Stefano e tutto il vuoto che li circondava.
Erano gli occhi di un uomo che non aveva nulla da perdere, non gli importava di perderlo, e comunque se l'avesse fatto avrebbe attratto e portato con lui quanto più possibile di quello che aveva intorno.
«Vabbè, se avete finito di guardarvi l'uno con l'altro come tre ebeti, decidetevi a dirmi se si va, o se volete rimanere a guardare il vostro amico fino a quando non crepa o non si sveglia. Per me non cambia niente, so io che vi starei a fa un favore» sembrava non emanare nessuna emozione mentre lo diceva.
Luna gli si avvicinò, erano petto a petto, lo guardava da venti centimetri più in basso, ma dalla sua aveva così tanta forza e tempo perso che riuscì a rimandare indietro tutto il vuoto che partiva da Remo.
«Va bene verme. Vuoi provare a fare il buon samaritano, a mettere una pezza a tutte le infamate che devi aver fatto nella tua vita con un grande gesto? Dammi le chiavi della macchina, il portafogli, il telefono, tutto. Sia chiaro da subito: non sei tu che fai un piacere a me, sono io che lo faccio a te. Se non ti sta bene fatti arrestare subito, sarebbe quello che ti meriti».
Remo sbuffò e rise di gusto «Ahahah brava, si vede che anche tu non hai niente da perdere, brava davvero, lo spirito è quello giusto. Ho tutto in stanza, mi cambio e te lo porto», detto questo uscì scomparendo così come era entrato.
Durante l'assenza Antonello provò a dissuadere Luna «A Lù ma che stai a fa? Te sei impazzita? Quello è matto, è pericoloso! Che ne sai che può fare quando state da soli?! Io non sto tranquillo».
Il Bianco stava in silenzio a guardare Stefano, non ascoltava, assente.
«Se non stai tranquillo ti potevi far sentire durante quest'anno» gridò incazzata «invece di fare la parte dell'amico ferito e abbandonato. Oppure mi vuoi dare il tuo motorino subito, eh, che dici?».
In quel momento tornò Remo, indossava un paio di jeans larghi e una camicia a righe marrone aperta fino al petto che lasciava intravedere una catena con un grosso crocefisso d'oro, delle infradito ai piedi.
«Bè, che si fa? Si va?»
«Certo che si va. Dammi le chiavi, t'ho detto che guido io. E voi due badate a Stefano e non fate danni. Dovete fare solo quello che vi riesce meglio: niente.
Il primo che ha una novità aggiorna l'altro...
Scusate se sono così dura, ma è un momento difficile... Mi ha fatto davvero piacere rivedervi. A Presto»
Un attimo dopo erano dentro l'Alfa 167 verde smeraldo con gli interni in pelle di Remo, Luna mise in moto ed il motore rombò con un rumore potente ed anni ottanta.
«Guarda che c'ho pure il navigatore, visto che sai l'indirizzo ci dovremmo mettere un'attimo»
«Stai zitto. Non mi pare di averti detto che potevi parlare... Ma come diavolo si mette la prima...»
«Se spingi leggera la frizione e...»
«Zitto t'ho detto! Devo prima passare a casa mia, e di Stefano»
Luna percorse le poche centinaia di metri che separavano il policlinico da casa sua a grande velocità. Fino a quel momento aveva sempre avuto paura di guidare per Roma; ne aveva avuto poche occasioni ed inoltre le mancavano parecchi gradi a tutti e due gli occhi, tant'è che anche con le lenti a contatto aveva serie difficoltà a leggere i tabelloni con gli orari dei treni (un paio di volte le era capitato di perderli per questo motivo). Eppure arrivò di fronte al cancello di ferro di casa sua inchiodando di botto di fronte alla pensilina del bus 492, ostruendone il passaggio. Tolse le chiavi dal quadro, si lanciò fuori, lasciò Remo a cuocersi al sole come un cane lasciato in macchina dai padroni ed ignorò del tutto il portiere che cercava di salutarla con falsa giovialità. Tornò veloce così come era andata, portando con se una specie di trasportino coperto da un telo bianco. Lo pose con cura sul sedile posteriore bloccandolo con le cinture di sicurezza e ripartì sgommando dopo aver inserito l'indirizzo di destinazione nel navigatore.
Un paio di chilometri dopo avere imboccato la tangenziale, Remo provò a dire «E in quella gabbia cosa ci sarebbe? Il tuo gatto non poteva fare a meno di te per un giorno?»
«Perchè?» rispose pungente Luna «vorresti macinare pure lui?»
«Non dirlo nemmeno per scherzo. I gatti per me sono importanti, sacri»
«Ma smettila» sbuffò sarcastica «non credo che una persona come te conosca davvero il significato di 'sacro', di qualcosa da proteggere con tutto il cuore.
E comunque non è mio. L'ho trovato, trovata, vicino a Stefano sul luogo dell'incidente. Se riesci a trattenere i tuoi istinti omicidi puoi togliere il telo e guardare».
Remo si voltò e scansò il telo pieno di curiosità, come un bambino che abbia ricevuto il pacchetto misterioso di un regalo inaspettato.
Dal profondo di due occhi piccolissimi e perfettamente tranquilli, una gallina lo guardava non tradendo il benché minimo gesto di nervosismo, pareva quasi se lo aspettasse.
Remo rimase a guardarla ipnotizzato sei o sette secondi, poi tornò a sedersi sul sedile anteriore, rimase perplesso, si girò di nuovo spostando nuovamente il telo, l'animale era sempre lì, lo fissava. Si girò a guardare dritto il panorama davanti a se per qualche altro secondo, poi guardò Luna, si voltò di nuovo verso la gabbia, poi di nuovo verso Luna e poi dritto. Era senza parole, come un bambino che scartato il regalo misterioso non sia riuscito a capire bene che razza di oggetto abbia ricevuto.
«Ma è davvero...», Luna lo interruppe;
«Certo che è una gallina. Non so che ci facesse Stefano. Stava vicino a lui senza muoversi quando sono arrivata all'incrocio dell'incidente. Ma è certo che se aveva solo lei con se deve essere importante. Può essere utile capire da dove viene. A casa non ce la lascio. E comunque non chiamarla 'gallina', ha una targhetta con un nome suo al collo... 'Nana'»
Remo si limitò a ripetere imbambolato «Nana... ho capito».
Stettero in silenzio da quel momento, Luna guidò nervosa fino a quando il navigatore non iniziò a dirottarli chilometri dopo, per stradine di campagna cominciando a ripetere senza fine «Ricalcolo, ricalcolo, ricalcolo».
Remo staccò con rabbia il navigatore e lo buttò dal finestrino «Tanto da qui in poi è inutile, l'aveva detto il tuo amico».
Luna chiese a chiunque incontrava per le vie sterrate e semi deserte come si arrivasse a Via di Campo Verde a Roccacencia ; bambini in calzoncini corti con bastoni fra le mani, un contadino rugoso in trattore, due vecchie con uno scialle nero in testa e buste piene di ortiche.
Quando finalmente riuscirono a trovare la via, scritta a mano su un cartello di legno, erano ormai le undici di sera passate. Eppure nel buio assoluto, senza un lampione della campagna, gli sembrò di vedere una grande quantità di luci e di sentire un frastuono incredibile, proprio lì vicino a loro.