lunedì 21 ottobre 2013

Palazzi - Racconto 02

Palazzi


I

“NO. No aspetta... Che significa? Il corpo inizia a sentire la mancanza. Parte come un malessere rarefatto, un pensiero, uno solo che sfugge al meccanismo caotico e perfetto che oscilla instancabile dentro e fuori te. Parte dal punto più lontano ed estremo, quello insospettabile. Magari all'inizio è solo un impulso anonimo che si muove insieme a tutti gli altri impulsi anonimi che regolano la tua mente. Magari sta andando dallo stomaco a dirti che hai fame, o che vuoi sederti. Poi, come fosse niente, naturalmente, si stacca. Gli altri procedono normalmente e lui si stacca, se ne va. Sembra rapito da una voglia che sembra rabbia, pero' dolce, e lei sta dentro di te e c'è sempre stata. E lui lo sa, la sente, la segue. E se ne va tranquillo e solo e rabbioso e dolce. Se ne va sicuro ma lento, risale tutto il tuo corpo fino alle mani, alla punta delle dita. Perché è li che va sempre, ed è lì che tu sfoghi la tranquillità e la solitudine e la rabbia e la dolcezza...”
Seduto davanti a un caffè pensava, pensava cose senza connessione apparente, senza un legame che fosse possibile spiegare agli altri con parole semplici, se mai ce ne fosse stato il bisogno. Seduto  di notte davanti a un caffè, lasciava fluire i pensieri, li lasciava andare dove gli pareva, dove dovevano andare. Non era un esercizio di stile, non era uno scrittore e non cercava nemmeno di impressionarsi da solo se mai ne avesse avuto uno bello,  geniale. Il pensiero giusto, quello che può elevare una mente mediocre ed illuminarla. Trasmutare in un micronesimo di secondo una mente mediocre in una mediocre che una volta ha avuto un pensiero geniale e dimostrare che Darwin aveva ragione e che l'evoluzione si presenta improvvisa e senza motivo. Non è che sia facile, ma qualche volta capita. Non lo cercava. E non gli piaceva nemmeno scrivere.
Però li scriveva. Tutti.
Pensava e allo stesso tempo scriveva.
“... e vivere qui vicino dev'essere un'agonia. Certo, anche io abito qui vicino ma la zona è più appartata rispetto alla strada principale. Abitare proprio qui su questa strada. Come fa uno ad abitare vicino a questa strada? Voglio dire, è notte e passano un sacco di macchine. Le sento anche da dentro il Cafè, passano musica ed è quasi notte. Magari se sei stanco ti addormenti e non le senti più, ma se ti svegli poi dev'essere dura tornare a dormire. La mattina sarà un inferno. Perché le case non le fanno più lontane dalla strada? Perché non fanno una legge che dica che le strade grandi non possono stare a meno di 'tot' metri dalle case? Perché allora tutti abiteremmo lontano dalle strade e per raggiungerle dovremmo costruire altre strade che però non potrebbero arrivare alle case e tornare sarebbe un casino...
Devo pisciare...”.
Scriveva tutto.
Lo faceva da due anni, da quando aveva trovato lavoro e durante il giorno gli era vietato pensare. Non proprio vietato, ma era meglio non lo facesse, non ne aveva il tempo, e per quello che doveva fare non avrebbe avuto nemmeno senso. Quando lo avevano assunto, la sera, appena finito di lavorare, era uscito nel parcheggio e prima di salire in macchina, mentre infilava la chiave nella serratura, si era sentito stanco. Privato di ogni forza, si era sentito un succo d'arancia  rossa offerto a un bambino viziato che lo aveva succhiato ingordo in un'unica violenta volta. Lo odiava quel bambino viziato. Ha già tutto senza essersi meritato ancora niente, ha due genitori che non si amano e che lo trattano come un cane di lusso, lo ricoprono di giocattoli, uno, due, tre ogni giorno, ci gioca due minuti e poi si annoia, si scorda, si dimentica di loro. I suoi genitori guardano tutti dall'alto in basso e così fai pure lui senza poterselo permettere. Non se lo può permettere perché è un grassoccio bambino viziato che ha tutto e non si merita niente. E gli offrono pure il succo. Almeno succhiami piano, cazzo!
Così si era sentito. Non era una stanchezza fisica, né mentale. Era un senso di svuotamento totale.
Quel giorno aveva guidato fino a quasi casa sua, si era fermato in un Cafè nelle vicinanze che rimaneva aperto 24h, aveva ordinato un caffè e piano piano i pensieri erano tornati nella sua testa. Loro tornavano e lui, per non perderseli, li scriveva. In due anni aveva accumulato sotto al divano letto sul quale dormiva una quantità smisurata di quaderni a righe, quadri, block notes, scontrini scritti sul retro, agende, copertine di libri, bicchieri di carta schiacciati, cartoline, buste da lettere senza lettere, lettere senza buste, banconote, fumetti, cartine per il tabacco... Da quando si metteva seduto in quel Cafè scriveva senza sosta, e smetteva solo quando si sentiva pieno, e tutta la carta che aveva sotto mano era piena di quel che lui era pieno. Allora posava la penna, tornava a non pensare, pagava il conto, usciva dal bar, aspettava che il semaforo diventasse verde, faceva a piedi il minuto, minuto e mezzo, che lo separava da casa, si spogliava, lavava i denti, si metteva a dormire ed il giorno dopo riniziava.
Non aveva un'idea precisa di cosa avrebbe fatto di tutti i milioni di parole che aveva messo sotto il divano letto. Forse un giorno le avrebbe prese e rilette dall'inizio alla fine una per una, avrebbe scelto quelle più belle, sottolineate, ci avrebbe scritto un numerino accanto, le avrebbe ritagliate a poi incollate tutte in fila in ordine numerico. Poteva uscirci la poesia del secolo. “La lunga e compressa poesia dei nostri tempi”. O magari li avrebbe fatti leggere a suo figlio, se mai ne avesse avuto uno. Non lo sapeva nemmeno lui. Naturalmente aveva scritto anche questo.
Tornò dal pisciare. Si rimise a sedere e chinò di nuovo la testa sull'agenda nuova che aveva comprato. C'era Tom Waits disegnato in copertina che fumava, un corvo sulla spalla. Gli piaceva Tom Waits. Non aveva letto niente di suo però aveva visto quella copertina con un tizio cool che fumava guardando l'orizzonte con un corvo sulla spalla. L'aveva presa in mano e sotto al disegno c'era scritto 'Ritratto di Tom Waits'. Quindi gli piaceva Tom Waits. O perlomeno la sua immagine. Poi la risollevò un attimo, si diede un'occhiata intorno. Non c'erano poche persone per essere così tardi. Essendo l'unico Cafè che faceva orario continuato, tutti gli amanti delle ore piccole si riunivano lì. C'erano diversi tavoli con delle poltroncine in vinile rosso e un bancone grande dove le persone si sedevano accanto ed una di fronte all'altra. Però non si vedeva chi c'era davanti  perché era separato a metà da un vetro colorato che impediva di guardarci attraverso. Si intravedevano le sagome. C'erano per lo più ragazzi soli che armeggiavano con l'I-Phone, I-Pod, I-Pad, I-Mac, qualcuno, evidentemente più sfigato e meno alla moda aveva un modello surrogato o un semplice portatile. E stavano tutti chini come stava lui, a farsi i cazzi loro come stava lui, a muovere le dita come le muoveva lui. Li guardò meglio. Prima chi gli sedeva immediatamente a destra e a sinistra. Quello di destra stava aprendo i profili facebook dei suoi amici, apriva, guardava, chiudeva, ne apriva un'altro, commento “:)”, chiudeva, apriva “Che bella che sei”, chiudeva, apriva “Sei na merda... ;)”, chiudeva... Quello a sinistra, che aveva un I-qualche cosa che era nuovo, non lo capiva bene però gli sembrava nuovo, aveva cliccato per sbaglio su una pubblicità che aveva aperto altre tre pagine di pubblicità, e si affannava tentando di chiuderle, aprendo ogni volta che andava sulla 'X' di chiudi, altre tre pagine. Andavano a tre a tre. Si alzò e si fece un giro del bancone. Tutti più o meno impegnati nelle medesime attività, tutti a far scivolare, avvicinare, roteare, picchiettare le dita sugli schermi, ognuno sul suo schermo.
Tornò a sedersi, prese la penna: “Stiamo”, cancella, “Stanno seduti tutti al proprio posto, tutti ordinati, in fila, nel proprio guscio. Sembrano tartarughe. La tartaruga è un animale molto longevo, vive anche più di cento anni, a volte trecento. Eppure non si muove mai, mai mai mai dal proprio territorio. Dalle proprie abitudini, da quello che fa. E' un'animale stanziale: si sveglia la mattina, se ne sta qualche ora a crogiolarsi a sole, a fare niente, a non fare niente. Aspetta che gli si alzi la temperatura e basta. Poi, quando si sente in forze dopo un bagno di sole, si fa un giretto per mangiare. Mangia erbe, radici, insalate, fiori, qualche volta frutta. Se proprio ne sente il bisogno raramente mangia lumache, o altri invertebrati più piccoli di lei. Quando il cibo manca la tartaruga mangia la merda. La sua e quella degli altri. Anche i cani mangiano la merda, però di solito la mangiano perché gli piace. La tartaruga perché non ha altro da mangiare, allora si costringe. Comunque non sono un cane. E non sono una tartaruga. Non voglio essere una tartaruga. Mangio merda, a volte, spesso, quasi sempre, in senso metaforico, s'intende, ma non sono una tartaruga, non voglio essere una tartaruga. Poi dopo mangiato la tartaruga si mette da una parte, in un angolo ben riparato (e se non è ben riparato non importa perché non ha molti predatori in natura), e s'addormenta. Il mattino dopo daccapo. Tutta la vita. Cento anni. Quelle fortunate fino a trecento. Poi muore. Voialtri siete tartarughe. Voi chiusi dentro il  guscio, guscio apatico-anonimo-multiuso. Causa-rimedio-funzione-soluzione della noia-paura. Tu, ragazzo con il berretto di lana firmato sulla testa che smanetti con l' I-coso del cazzo anche se dentro il Cafè c'è il riscaldamento e non ti vede nessuno. Tu sei una tartaruga. Il tuo telefono, il tuo vestito carino, il tuo caffè, il tuo mutismo, i tuoi gesti ripetitivi, le tue cuffie per la musica nelle orecchie, il tuo lavoro, il tuo mangiare, il tuo dormire, il tuo scopare, il tuo morire. Il tuo ripetitivo morire vecchio e stanco e rincoglionito e senza senso. 
NO. No aspetta... Che significa? Non sto facendo lo lo stesso? Non me ne sto pure io seduto, col caffè, con la penna, con la giacca elegante del lavoro, non mi sto facendo i cazzi miei pure io?! Non mangio, dormo, scopo, muoio pure io? Sto dentro al guscio come te, come voi. Allora, in un modo o nell'altro, siamo tutti tartarughe... Però, però se siamo tutti tartarughe, se stiamo tutti avviluppati, aggrappati, stretti ad un guscio perché ci ripara, protegge, fa comodo o quello che è, io voglio essere una tartaruga di mare. Marina. Sarò una tartaruga marina. Sono una tartaruga marina.
Belli miei, c'è una differenza, una sola, ma è grande. Voi ve ne state fermi, siete stanziali. La tartaruga di mare, la caretta-caretta, nasce sulla terra e appena nata si tuffa in acqua, e non ritornerà sulla terraferma se non per deporre le uova, se è femmina, se è maschio non ci tornerà per niente. Gira tutto il mondo, gli scienziati non hanno ancora capito che vie, rotte, segue. Gli hanno messo collari gps di tutti i tipi ma ancora non l'hanno capito. Forse segue la corrente. Forse è intelligente e decide da sola dove andare. Forse è scritto nel DNA, è tutto istinto, e va e basta. Se siamo tutti tartarughe e dobbiamo avere il guscio, io sarò una tartaruga marina. Caretta-caretta. Ciao terricoli, vado a vedere il mondo.”.
Chiuse l'agenda di Tom Waits, calmo, lento, lentolentolento, si alzò, pagò il conto e scese per strada.
Aveva la convinzione che il giorno dopo avrebbe lasciato il lavoro, la macchina, il Cafè, la casa, il divano letto, le parole sotto il divano letto, l'agenda. Il giorno dopo si sarebbe buttato a mare ed avrebbe seguito la corrente, forse lo avrebbe deciso, o ce lo aveva scritto nel DNA. Non era un pensiero, non stava più pensando da quando aveva staccato la penna dal foglio, era una convinzione.
La convinzione gli durò fino a che fu fuori il Cafè, a notte fonda, appoggiato con le spalle al semaforo pedonale aspettando che scattasse il verde per arrivare a casa sua, un minuto, un minuto e mezzo, il tempo che qualcosa lo punse nella parte del collo scoperta fra il bordo della camicia bianca e l'attaccatura dei capelli. Svenne, non lo pensò, svenne.




II

Non sentiva le mani, i piedi, la testa, le gambe, la lingua, il respiro, il dente cariato che gli faceva male da due settimane, il culo.  Non sentiva i suoi pensieri. Era sicuro di esserci, perché c'era, ma non sentiva niente. A discapito che tutti i segnali che non sentiva dicessero il contrario, lui c'era. Era come uno specchio umido dopo una lunga doccia calda; se ci si specchia non si riesce a capire bene se chi è riflesso è il corpo di un bambino, una donna, un giovane, un vecchio, di qualcuno che non siamo noi. Eppure lo siamo. Non si può fare finta di niente solo perché siamo nascosti ai nostri occhi. Cercò di spannarsi come poteva. In primo luogo stabilì che doveva essere sdraiato. Non aveva ancora sensibilità alla schiena per capirlo, ma riusciva a socchiudere gli occhi. Vedeva una luce azzurra scendere dall'alto, quindi doveva essere in orizzontale. Non vide altro, la luce era debole, fredda. Provò a tirare su la testa per guardare dritto davanti a sé. Niente, immobile. Provò allora ruotarla di lato, verso la spalla destra. Non aveva ancora nessuna sensibilità, eppure si mosse. Pensò che dovesse essere in uno stato simile a quando stai tanto tempo seduto in una posizione che renda scomodo lo scorrere del sangue e le gambe ti si addormentano. Non ci sono ma riesci comunque a muoverle.
Vedeva un muro. Quindi era in un luogo chiuso. Una sedia. Una persona sulla sedia. Pensava di vederle. L'intensità della luce era troppo bassa, gli oggetti, le pareti, il soffitto, tutto era ricoperto da una sottile pellicola azzurra appena più luminosa dell'oscurità. Non era una sedia, troppo alta. Forse uno sgabello. Un trono. Le cose che aveva scritto impilate una sull'altra a costruire un trono di carta.
Sentì che riusciva a muovere un dito, la luce si fece più chiara. Era una ragazza, una ragazza seduta su un trono di parole di carta. Le sue parole di carta custodite, conservate, accumulate, dimenticate, sepolte, abbandonate, sbagliate, ritrovate, cancellate, perse, no, nascoste. Stava seduta sulle sue parole nascoste. Adesso lei gliele avrebbe ridate, lui le avrebbe prese e sarebbe partito come la caretta-caretta a perdersi per il mondo senza più timore di doverle nascondere.
Le dita della mano stavano riacquistando sensibilità. Lei gli avrebbe ridato le parole e lui avrebbe di nuovo sentito il sangue scorrere, tornare ad irrorargli il corpo come un fiume caldo che scorreva solo per lui, avrebbe portato ossigeno al cuore, ai muscoli, alle cellule, ai nuclei delle cellule che si dividevano, separavano, riunivano, accrescevano, moltiplicavano un numero infinito di volte, il numero giusto di infinite volte per poi confluire tutti all'origine dei suoi pensieri. La luce si schiarì un altro po'. Non era la luce ad essere debole. Era la vista. La luce era normale. La ragazza si alzò dal suo trono, gli si avvicinò con grazia, armonia, lentezza. Metteva i piedi uno davanti all'altro come se fosse la cosa più naturale del mondo, come se non avessimo dovuto cadere tutti innumerevoli volte prima di imparare a camminare. Ebbe l'idea che la ragazza non avesse mai dovuto farlo ma fosse nata così, nata che sapeva già camminare. Le vide i piedi nudi, e il pavimento sotto di essi che si accorciava con la stessa grazia noncurante, annullando le distanze fra loro. Poi lei fu abbastanza vicina da guardarla bene in viso. Non se n'era accorto ma i capelli erano mori e lunghissimi. Lisci fino all'altezza della spalle per poi arricciarsi in tante piccole onde chiare sulle punte. Gli coprivano per metà la fronte alta e spaziosa. Gli occhi erano grandi e dello stesso colore, leggermente inclinati come quelli degli orientali, o dei gatti, grandissimi. Non in senso assoluto, sembravano grandissimi, spalancati fino alla massima estensione possibile, come se dovessero inghiottire qualche cosa.
Gli fu ad un passo. Lei in piedi, con solo dei pantaloni di jeans da lavoro addosso, il seno piccolo e sodo, i capezzoli della giusta grandezza e densità qui e lì velati dai capelli, lui sdraiato. Si chinò verso il ragazzo sdraiato sotto di lei, i capelli si scostarono rivelando il viso completamente. Era bello, ma ora che lo poteva vedere da vicino aveva qualcosa di strano. La pelle era strana, non era un particolare che aveva potuto notare prima, ma era come squamata. La pelle di un pesce, o di un rettile, o di qualcuno che non in tutta la sua vita non ha mai preso una goccia di sole. La pelle di un frutto marcio.
Adesso sentiva tutte le dita muoversi, il pavimento sotto la schiena, il dente cariato da due settimane.
Tre immagini lo colpirono, insieme, violente, spietate, un pugile peso massimo, una montagna di muscoli contro un peso piuma; il peso massimo che non gli da nemmeno il tempo di capire perché, per quale assurdo motivo sono finiti sullo stesso ring, ci deve essere stato un errore, qualcuno si deve essere sbagliato, SICURAMENTE SI E' SBAGLIATO... SBAM arriva il primo colpo, il sorriso della ragazza, i denti della ragazza, una striscia di ceramica finissima sporcata da anni di macchie di sangue e di merda. Il peso piuma non incassa nemmeno, assorbe tutto l'impatto e le ossa del volto scricchiolano, fanno tanti crickcrickcrick, inizia a roteare su sé stesso due, tre volte, il pubblico pure rotea, lo incita, grida, esulta, ne vuole ancora. Lui non sente, ha già il sangue nelle orecchie, ma forse sta smettendo di girare, sicuro, rallenta SBAM il secondo colpo, le pareti intasate di libri, quattro pareti completamente rivestiti di libri, quattro immense biblioteche al posto delle pareti. Enciclopedie, romanzi, biografie, volumi giganteschi, antichi, recenti, tutto. E riprende a girare e il viso ormai non scricchiola più perché quello che si poteva rompere si è già rotto, e sputa sangue in tutte le direzioni, sembra una fontanella impazzita che gira e gira e sputa sangue e il pubblico lo incita, forse lo incita mentre gira, forse il pubblico gira e lui incita forse SBAM . Tre. Il suo trono di parole nascoste, il suo trono di parole nascoste da ridare, il suo trono di parole nascoste da ridare da riprendere, il suo trono di parole nascoste da ridare da riprendere per partire.
Ossa.
Non sono parole sono ossa.
Non è un sogno sono ossa.
Non gira più.
Avrebbe voluto dire, urlare, piangere qualcosa, non ci riusciva. La ragazza era sopra lui, coi capelli arricciati in schiumette vaporose, col seno denso e piccolo, coi denti marci di anni di sangue e di merda, e non riusciva a dire niente. Tentò di alzarsi ma le gambe erano bloccate, legate da qualche cosa che lo stringeva alle caviglie. Le parole gli morivano in bocca, partivano dai polmoni, attraversavano tutta la laringe cariche disperazione, scivolavano sulla corde vocali vibrando di paura e morivano senza emettere un gemito sui peli della lingua.
Cercò d'istinto l'agenda nuova di Tom Waits, le mani non erano bloccate, poteva scrivere, in qualche modo doveva fare uscire quel terrore che gli moriva dentro, lo doveva allontanare in qualche modo, lo doveva scrivere. Non c'era. Stava in tasca, era sicuro, si era alzato nel Café e ce l'aveva messa.
“Hai perso qualcosa, tartarughina?”, lei disse mentre erano faccia a faccia, mostrando con naturalezza i denti, le labbra squamate, l'alito nauseabondo.
“Forse senza scrivere non riesci ad esprimerti? Poverino, hai senza dubbio qualche problema.”
Davvero avrebbe voluto dire qualcosa, ma non poteva, gli occhi inclinati grandi inghiottivano tutte le briciole della propria coscienza che aveva chiuso da qualche parte per non impazzire o cagarsi sotto.
“Seriamente tartarughina, mi piace quello che scrivi, mi ci ritrovo. Penso che hai ragione, siamo tutti tartarughe, chi più chi meno. Ci nascondiamo tutti, in qualche modo, no? Tu ti nascondi nei pensieri che lasci liberi di andare quando scrivi. Ne ho conosciuti tanti simili a te. Ci sono così tanti modi per non farsi vedere” sorrise emettendo un piccolo suono “Ma tu proprio non vuoi parlare con me? A volte mi sento sola. Fatti coraggio, parliamo un po'”
La guardava, non riusciva a non farlo, e cercava di capire cosa ne avrebbe fatto di lui.
Glielo avrebbe chiesto se solo ci fosse riuscito, ma ansimava rumorosamente, ed anche il semplice respirare gli stava diventando complicato.
“Allora facciamo così, tartarughina. Io adesso faccio così” e dicendolo estrasse un coltello, piccolo, incrostato di sangue dalla tasca dei pantaloni “e se proprio tu non riesci a parlare ti restituisco l'agenda, ok? Quella di Tom Waits. Mi piaceva Tom Waits. Comunque ti restituisco l'agenda così tu ci puoi scrivere sopra. E così comunichi con me. Vorrei proprio sentire quello che hai da dire. Vorrei essere lo scrigno che potrebbe contenere le tue ultime parole, capisci cosa voglio dire? Hai scritto così tanto che non vorrei perdere quelle finali. Lo faccio con tutti. Le scrivo anche io. A volte le rileggo. Comunque spero di no, vorrei tantotanto ascoltare la tua voce”
Si piegò sulle ginocchia, i capelli ondeggiarono sinuosi fino a toccare terra, gli tirò su l'orlo dei pantaloni neri  da impiegato che indossava fino a scoprire il polpaccio. Lui la guardava sdraiato con la testa appoggiata al petto, ansimante. Gli conficcò il coltello nella carne del polpaccio, era tenera e non offriva nessuna resistenza, lo spinse giù per un centimetro, poi fece forza ed iniziò a tagliare disegnando un rettangolo preciso e simmetrico. Il silenzio della lama che tratteggia e gioca con la polpa fu rotta da un urlo fortissimo. Lei staccò il pezzo di carne dalla gamba, lo poggiò sul palmo della mano e iniziò a giocarci rigirandolo con le dita dell'altra. Era stata molto precisa e non perdeva molto sangue, ma gli colava comunque dal buco che aveva lasciato ed il pavimento cominciava a tingersi.  Gli era uscito solo quell'urlo, poi aveva iniziato ad ansimare più forte e la guardava fissa mentre il sangue si andava a depositare per terra e la fronte si riempiva di grosse gocce di sudore che brillavano sotto la luce azzurra. Avrebbe gridato anche di più ma gli era uscito solo quello. Si era concesso solo quel fortissimo, insignificante sfogo e poi le vocali gli erano tornate giù ripercorrendo il percorso all'indietro fino ai polmoni. Lei prese il pezzetto di polpaccio e se lo ficcò in bocca cominciando a masticarlo come fosse una caramella, a bocca aperta e rumorosamente. Lui, ancora sdraiato, si vomitò addosso.
“Peccato... Non vuoi proprio farmi sentire la tua voce eh... Chissà che voce hai, se è bella o brutta... Ma comunque, va bene, scrivi, dai” lo disse con una voce gentile, sorridendo. Gli porse l'agenda e la penna. Lui la prese, sempre guardandola fissa negli occhi, tremante. Scrisse “Io sono una tartaruga di mare, sono una caretta-caretta. Sono nata nel mare. Non morirò qui, morirò nel mare. Ho deciso che sono una tartaruga di mare e devo morire nel mare. Tu non puoi farci niente”.
La ragazza riprese l'agenda e lesse, divertita “Hai proprio ragione, te l'ho già detto, siamo tutti tartarughe. Lo sei tu, lo era quello prima di te, e lo sono io, che mangio le persone. Per capirle le cose le devi studiare, riflettere, poi le devi esternare. Se lasci tutto dentro rimane una cosa morta, mentre noi siamo vivi, seppur tartarughe, siamo vivi. Io ho deciso di rinchiudermi dentro a questo palazzo nel quale non viene mai nessuno. Così io me ne sto chiusa dentro questo guscio grandissimo e mangio le persone. Ho letto tutto del mondo e non voglio averci niente a che fare. Non voglio incontrare altre tartarughe. Me le mangio. Le addormento, le porto qui, e me le mangio. Naturalmente pago le bollette, anche se mi nascondo e mangio le persone, vivo comunque in questo mondo. Non l'ho scelto. Però ho scelto di starmene nel mio guscio ed mangiare gli altri che stanno nascosti nel loro guscio. L'ho deciso io. Tu non puoi farci niente”
Le forze gli mancavano, e fra la droga ancora in circolo ed il sangue perso sentiva di stare per svenire, però continuava a guardarla fissa, cercando di vincere quegli occhi che inghiottivano tutto.
“Però dici che sei diverso. Sei una testuggine marina. Che ha trovato il coraggio di lasciare il suo angolino di terra e gettarsi in mare per non tornare mai più... Allora non ti fermo. Vai. Se riesci a dirmi una parola sei libero di gettarti nel blu che hai immaginato. Nel blu che esiste solo nella tua testa, nelle storie che hai scritto e in cui ti sei crogiolato per due anni cercando di cambiare senza fare niente. Non sei diverso da me.
Dimmi una parola. UNA” la ragazza urlò “UNA CAZZO DI PAROLA” si calmò “che ti convinca. Deve convincere te, non me, te. Che ti convinca al 100% in ogni fibra di ciò che ti compone che tu sei davvero quella cosa diversa da noi che dici di essere e ti lascio andare. Chi sono per impedirtelo? Sono un'altra tartaruga come te...”
Sorrise.

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