giovedì 26 aprile 2012

Un nuovo motivo - Capitolo II (continuo)-


Oggi ho continuato a scrivere un pò il II capitolo fra gli spostamenti a Tokyo, mi sento ispirato.
Fosse solo uno, sarei contento se quacuno fosse curioso di leggere.
E se non lo fosse nessuno andrebbe bene lo stesso, sono curioso io di scrivere.

Capitolo II (continuo)

La mattina dopo impiegò più di un quarto d'ora da quando aprì gli occhi per riprendere contatto con la realtà.
Il giorno prima doveva avere bevuto molto, perché la testa e il fegato gli dolevano in modo terribile, ma non se lo ricordava bene.
Con un gesto istintivo allungò la mano fino all'altro lato del letto a due piazze (anche se in realtà erano due letti singoli uniti e tenuti fermi da un'asse di legno inchiodata alla bene e meglio alle estremità) cercando un contatto fisico con Luna.
Non lo trovò,  mugugnò in modo rozzo.
Non capiva bene che ora fosse, potevano essere le dieci come le tre del pomeriggio, per quel che ne sapeva.
Fece uno sforzo terribile per aprire gli occhi, le palpebre gli pesavano come due asciugamani di spugna intrisi d'acqua sino all'ultima fibra.
Quando le sollevò, il sole gli colpì senza preavviso le pupille provocandogli un dolore lacerante che si trasmise ai nervi oculari e da li si sparse in tutto il corpo, come fosse una gigantesca cassa armonica.
Dall'intensità della luce che filtrava dalle persiane semiaperte e dal rumore di forchette che strusciano sul piatto che sentiva provenire dal bar di sotto, stabilì con l'approssimazione lucida di un ubriaco, che doveva essere più o meno mezzogiorno passato.
Cercava di riordinare i pensieri, ma era passato troppo poco tempo, o almeno così credeva, da quando era crollato privo di sensi.
Alle undici aveva una supplenza all'università per i nuovi studenti ERASMUS, ma l'idea di controllare il cellulare per vedere l'ora o le chiamate perse li sfiorò solo un attimo e lo abbandonò subito, come un colpo di vento venuto dal nulla che solleva foglie e terra, e poi se ne va lasciandole ricadere al proprio posto.
Il giorno prima non era voluto andare all'ospedale insieme ad Antonello e al «Bianco» (soprannome che si portava dalle elementari per via del cognome, Bianchi, e per la carnagione più scura della media, eredità di una millantata lontana discendenza spagnola).
I suoi migliori amici, insieme a Renzo.
Si sentiva ancora troppo scosso e gonfio di lacrime per dire qualche patetica frase di circostanza, o sincera, o qualsiasi altra cosa ai parenti ed alla ragazza di Renzo.
Dopo  aver pianto per più di mezz'ora dopo la telefonata, si era alzato, e senza dire una parola a Luna aveva preso le chiavi della Vespa ed era uscito.
Lei, quasi avesse letto in anticipo la sua mossa come quando giocavano a scacchi, si era messa una sua camicia (quella che gli rubava sempre, verde militare e larga, con un cavallo sul taschino) e si era gettata all'inseguimento veloce e silenziosa, per le scale.

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