venerdì 1 giugno 2012

Un nuovo motico - Capitolo V (Continuo II) -

Finalmente riesco ad proseguire. Quando scrivo mi sento davvero bene, come se fossi il 'vero' me stesso. Non so se voi vi sentite così quando fate quello che vi piace e/o in cui credete di cavarvela.
Questi giorni ho sempre sonno. Mi è capitato di addormentarmi con la penna in mano un pò ovunque, casa, parco, bar.
Però non ho, non abbiamo scelta, no? Se c'è qualcosa in cui crediamo, dobbiamo provare a farla, ad ogni costo, anche quando il sonno bussa forte (e a Tokyo lo fa sempre). 
Buona lettura, un saluto


CAPITOLO V (Continuo II)

Pensava mentre con la mano carezzava la testolina dell'animale; questo ne era felice, e perso in una lunghissima fusa sembrava essersi calmato. Gli ricordò il rumore che faceva il motorino del padre quando fino qualche tempo prima lo andava a prendere all'uscita di scuola. I versi ritmici gli conciliarono la mente, e alla fine si decise a lasciarlo lì: la campagna dei nonni era piuttosto grande e dov'erano i limoni non ci passavano mai se non quando li dovevano raccogliere per distillare il limoncello che il padre vendeva (e beveva) in macelleria.
Inoltre la scatola era troppo grande perché riuscisse a uscirne, e anche se si fosse messo a miagolare per paura o solitudine, sarebbe stato difficile che i lamenti giungessero alle orecchie di qualcuno; c'erano almeno duecento metri fra loro e la cucina che s'affacciava sul prato.
E poi da quando il nonno Antonio era riuscito a comprare il televisore a colori  non c'era un momento che non fosse acceso, anche se non lo guardava nessuno.
Diceva che almeno così non era costretto a sentire la voce della moglie, e lei da parte da sua si era istantaneamente appassionata alle telenovelas sudamericane  e ne era così presa che non la sfiorava nemmeno l'idea di comunicare col marito.
Si, era convinto che fosse la cosa più sicura.
La sera avrebbe coperto la scatola con un coperchio forato per farlo respirare e ci avrebbe messo una pietra sopra, così sarebbe stato al sicuro da vipere, colpi di vento che avrebbero potuto rovesciarla ed altri eventuali pericoli.
Ora doveva risolvere la questione dell'occhio e di come nutrirlo.
La cosa più sensata da fare pensò fosse andare in farmacia, anche se non ci era mai andato da solo, visto che quando era stato male si era sempre limitato a prendere passivamente le cose che gli davano i grandi.
Avrebbe inventato sul momento ad una bugia da dire al farmacista per giustificarsi di essere andato senza i genitori, prima però doveva assicurarsi di avere i soldi.
Diede un'ultima arruffata amichevole al pelo della bestiola, coprì la scatola ed attraversò furtivo il campo che lo separava da casa.
Come si allontanò dagli alberi lo sentì miagolare, ma man mano che si allontanava i versi perdevano di intensità e si attenuavano sino a scomparire; aveva pensato bene e questo lo rincuorò un po'.
Entrò nella sua stanza stando bene attento a non farsi vedere e chiuse le tende nel caso fosse passato qualcuno fuori. Afferrò il classico porcellino di coccio col tappo svitabile sul fondo, si ricordava di averlo sempre avuto, e da altrettanto tempo opporre una fiera quanto inutile resistenza, alle sue periodiche razzie.
Quando l'ebbe fra le mani gli parve più pesante del solito, eppure non aveva ricevuto 'mance' inaspettate ultimamente. Svitò il tappo ad occhi chiusi, le monete scesero fitte tutte assieme, andando a tintinnare una sull'altra attutite dalla coperta del letto. Era pieno zeppo di spicci da cinquanta e cento lire, e in
più un paio di banconote da mille.
Effettivamente da quando era andato a vivere in mezzo al nulla dei campi non aveva avuto molte occasioni per spendere ciò che riceveva a natale e al compleanno dai parenti; il gelato e i soldatini glieli pagava il padre, lui al massimo si concedeva una partita ai videogiochi al bar della parrocchia dopo essere stato a messa la domenica mattina (il qual fatto gli rendeva più sopportabili le lunghissime omelie del prete su peccati che non comprendeva minimamente e il continuo in piedi-seduto della funzione). In effetti acchiappare lucertole  per la coda ed osservare per ore la stessa formica fare avanti e indietro non è che fosse un'attività così dispendiosa.
Per la prima volta fu grato di abitare fuori città.
Raccolse tutti i soldi che poteva, scelse solo le monete dal valore più grande, tutte nella tasca stretta dei calzoncini non sarebbero entrate.
Ci mise qualche minuto per uscire di casa e percorrere il giardino antistante la strada; era così carico che quando si muoveva risuonava come una pecora alla quale avessero attaccato una collana di campanelli,  voleva nel modo più assoluto evitare i nonni e le domande che gli avrebbero rivolto se lo avessero scoperto. Si immaginava la nonna guardarlo dal profondo dei capelli incanutiti e degli occhi azzurri chiedergli in pugliese «Disgraito, addù vai tutto sulu?».
Riuscì a raggiungere la strada inosservato, sapeva dov'era la farmacia, ma ci era sempre andato insieme a qualcuno. Comunque aveva visto il percorso dalla macchina tante volte ed erano solo le quattro del pomeriggio, di sicuro ce l'avrebbe fatta. Era settembre e faceva ancora caldo, anche se da mezzogiorno le nuvole avevano iniziato a mescolarsi sino a diventare un grande telo grigio che copriva l'azzurro del cielo.
Era vestito in maglietta, calzocini e sandali di plastica, a metà tragitto iniziò a piovere. Erano più o meno venti minuti che stava camminando, anche se si fosse messo a correre non c'era possibilità di evitare l'acquazzone, e di ripararsi sotto qualche portone non ci pensava nemmeno: se lui si bagnava si bagnava anche il gatto, di sicuro qualche goccia sarebbe entrata dai fori per l'aria, e nelle sue condizioni di salute, forse, pensava gli sarebbe stato fatale. Aumentò l'andatura, i capelli gli si infradiciarono formando una frangia lunghissima che per metà gli copriva gli occhi impedendogli di vedere i passanti che lo guardavano come un folle mentre a testa bassa, bagnato fino al midollo, passava incurante in mezzo alle pozzanghere con i suoi sandali da mare. Quando arrivò di fronte la farmacia i vestiti gli aderivano al corpo come i trasferelli che trovava dentro le patitine; per la via non c'era nessun altro a parte lui. Aprì la porta, il campanello rintoccò, il dottore lo guardò sorpreso mentre spargeva gocce su tutta la soglia; si ricordò di quel film con Clint Eastwood, e si sentì come lui quando solitario e dannato spalancava le porte del saloon attirandosi addosso tutti gli sguardi.
Provò ad imitarne la camminata mentre si avvicinava al banco... «La mamma mi ha mandato» disse senza dare la possibilità al farmacista di farlo per primo «perché il gatto ha sbattuto su uno spigolo del corridoio ed ora ha un occhio gonfio che butta sangue. Sarebbe venuta lei, ma lavora tutto il giorno e non può. Ha qualcosa?».
L'altro si toccò la montatura degli occhiali alzandola e abbassandola, squadrandolo come stesse valutando l'acquisto di un cavallo che avrebbe potuto fare la sua fortuna come ridurlo sul lastrico.
«Mh........ Ci sarebbe il 'Colbiocin' ma costa duemila lire... la mamma i soldini te li ha dati?». Non aspettava altro, ne aveva contati almeno il triplo, ce l'aveva fatta.
Estrasse dalla tasca tutto ciò che aveva e lo buttò sul banco fissando il farmacista con fare preciso e strafottente; era la prima volta ma da allora lo avrebbe fatto sempre ogni volta che qualcuno avrebbe provato a fare il furbo senza sapere che lui lo era di più «Questi bastano, vero? E poi mi dia pure del latte per neonati e un biberon, che c'ho un fratellino piccolo e la mammina per
noi non bada a spese».
Prese il pacchetto ed uscì come era entrato senza dire una parola, lasciando solo una scia d'acqua sul pavimento a testimonianza della sua presenza.
Tornò al giardino, lesse le istruzioni del medicinale e per giorni applicò con amorevole pazienza l'unguento all'animale, nutrendolo tre volte al giorno con latte liofilizzato.
Migliorava, lento ma migliorava. Dopo una settimana il gonfiore si era ridotto molto e cominciava pure a farlo sgambettare in libertà per i campi, dando la caccia assieme a qualsiasi insetto o animaletto che gli capitava sotto mano.
Si erano affezionati per davvero, e quando la lingua setosa del micio gli raspava la mano ancora liscia e ingenua, sentiva di avere fatto qualcosa di veramente
buono.
Un paio di settimane dopo tornò da scuola, ma non sentì i classici miagolii ad accoglierlo. Si precipitò pieno d'ansia verso la scatola, aveva il terrore che la nonna l'avesse trovato ed affogato dentro il pozzo. Non gliel'aveva mai visto fare, ma il padre gli aveva raccontato che quando era piccolo una volta l'aveva fatto con una cucciolata selvatica che avevano trovato perché temeva che crescendo sarebbero stati un pericolo per le galline.
Ma ora le galline non le avevano più, quindi perché...
Raggiunse la scatola di corsa, il coperchio era ancora al suo posto, con la pietra poggiata sopra. All'interno c'era un biglietto.
«Che questo ti serva di lezione. Questa è casa nostra, tu non c'entri niente. Se riprovi a prenderti ciò che ci appartieni per diritto, facciamo sparì pure a te - I Tuoi Amici-».
La disperazione più profonda che aveva conosciuto fino a quel momento si impadronì di lui... «Possibile che l'abbiano fatto? Possibile che l'abbiano fatto DAVVERO?».
Sentì ogni suo senso vacillare, sprofondare fino ai recessi più bui e dimenticati della terra. Tremo di paura, poi di rabbia.
Andò al capanno degli attrezzi del nonno e prese la mazza con la quale di solito ammazzava le vipere quando andava a seminare i campi.
Il sognò finì.
Si guardò intorno spaesato ma piuttosto lucido. Una stanza d'ospedale.
Di fronte a lui una ragazza con un profondo trucco nero, i capelli dello stesso colore. Un piercieng al sopracciglio e diversi altri alle orecchie.
I lineamenti sfumati da bambola di porcellana.

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