sabato 26 maggio 2012

Un nuovo motivo - Cap. V (Continuo) -

Torno a postare. Forse voi non  avete nemmeno fatto caso all'assenza, ma a me è mancato moltissimo questa settimana.
Tokyo (e il Giappone tutto), purtroppo o per fortuna, è una città che non ti fa accorgere dello scorrere del tempo. E' bene e male. Il tempo passa discreto, ma passa, croce e delizia.
Ho provato a scrivere in ogni momento libero: sul bus, treno, pausa dal lavoro.
Ma il sonno ultimamente vince facile, la penna da leggera diventa pesante all'improvviso, e quando ti svegli sei di nuovo immerso nella vita.


Comunque Remo adesso sogna, e sogna forte.
Sogna diverso da voi, ma quanto può essere diverso un sogno? Tutti noi lo facciamo, ci riviviamo, immaginiamo e metabolizziamo così.
Quanto sono diversi i sogni di Remo dai vostri? Quante sono le cose che ci dimentichiamo per non volerle ricordare e nonostante tutto ci ritroviamo nell'ingorgo incosciente di quello che siamo, dei sogni che nemmeno volendo potremo mai cambiare...


Sole tre paginette, avrei voluto finire. Ma non sono tre pagine da buttare, e prima o poi finirò. Un abbraccio


CAPITOLO V (Continuo)


Ogni tanto riusciva a socchiudere gli occhi, gli sembrava di vedere qualcuno intorno a lui, di essere in movimento a gran velocità. Sentiva un gran frastuono dentro e fuori, non era sicuro se fosse realtà o stesse solo sognando. Gli accadde tre o quattro volte. Aprì e chiuse, persone; aprì e chiuse, rumore; aprì e chiuse, confusione, immagini e suoni impastati uno sull'altro. Aprì e chiuse, poi sognò davvero. 
Si rivide bambino a casa dei nonni in mezzo agli alberi di limoni.
Sua madre se ne era andata da poco, aveva sei o sette anni.
Il padre aveva troppo lavoro alla macelleria, troppo poco tempo per badare a lui.
O forse semplicemente troppa poca voglia. Remo passava il tempo a ciondolare per la campagna e a giocare a scopa col nonno sulla veranda.
Il padre si faceva vedere una volta a settimana la domenica per portarlo in sala giochi o a mangiare un gelato. Era come uno di quei padri separati part-time che si fanno vedere solo il fine settimana, solo che non lo era.
Per questo motivo non è che nutrisse tutto questo affetto per lui, e nemmeno per i nonni, almeno presi assieme: si erano sposati senza amarsi per convenienza nei primi del novecento. Erano tutti e due pugliesi, la nonna avrebbe voluto sposare un pittore spiantato (ma bellissimo, da quel che ne diceva)  che le aveva proposto di scappare assieme, ma non ne ebbe il coraggio, troppe malelingue nel paesino. Così finì per sposare nonno Antonio, il commerciante d'abiti col carretto, verso il quale non provava né stima né amore, ma serviva a coprire bene le apparenze della provincia del sud. Dopo due anni di buoni affari il carretto non bastò più ed emigrarono a Roma aprendo una bottega. Poi un'altra. Che non si amassero lo capiva anche un bambino come lui, più che altro per le bestemmie che il nonno le rivolgeva anche quando la mela cotta delle sei e mezza (la loro cena da diabetici) era troppo o troppo poco cotta.
Così preferiva stare per conto suo, passando la maggior parte del tempo a rotolarsi il mezzo all'erba e a salvare gli insetti che i suoi 'amici' di campagna si ingegnavano a catturare con trappole rudimentali per farli morire bruciati al sole.
Non capiva perché i suoi compagni di giochi dovessero divertirsi così, ed ogni volta che disinnescava quei marchingegni infantili e crudeli, i suoi 'amici' lo scoprivano e lo riempivano di schiaffi, o almeno così gli parve di sognare. Poi sognò un po' più forte, avvertì una fitta intensa alla mano e il sangue scorrergli dal naso.
Continuò.
C'erano questi ragazzini cresciuti come lui a metà strada fra la città e la campagna, indecisi su cosa essere o che strada prendere, che stavano tirando sassi a un gattino che si trovava nel fosso del 'Sor Bastiano', un vecchio bisbetico che non gli ridava mai la palla quando finiva dentro casa sua.
Il fosso era piccolo, profondo una decina di metri, soltanto un altro centinaio lo separava dalla strada. L'erba vi cresceva libera e indomata, pieno di ortiche, rovi, margherite, spine. Quasi impraticabile giocarci, se non quando si voleva catturare ad ogni costo la lucertola che ci si era andata a nascondere. Però erano diversi anni che resisteva all'avvicinarsi inarrestabile della città; tant'è che quel posto era diventato il ritrovo dei gatti e cani (a volte anche ricci) selvatici o abbandonati che dovevano partorire.
Avevano trovato questo gatto di pochi giorni senza madre né fratelli, era malato e miagolava stonato senza fermarsi.
Un occhio era gonfio e pieno di pus, a confronto con l'altro pareva una palla da baseball. Li vide da lontano, senza pensare si precipitò verso l'animale per proteggerlo, a quell'età gli sembrava semplicemente ingiusto che la bestiola fosse presa di mira solo perché era sola e diversa.
Ovviamente ci si rispecchiava, ma non lo capiva ancora.
Si mise in mezzo alla sassaiola e prese tutti i colpi al posto suo.
I ragazzini non si fermavano, per loro non era importante cosa colpire, l'importante era farlo, scacciare via l'ansia confusa scaricandola contro qualcosa che fosse più diverso rispetto a come si sentivano; che fosse un bambino o un gatto era indifferente.
Diverse pietre lo colpirono alle gambe e alla testa rompendogli gli occhiali (da quel giorno non li avrebbe più indossati).
Il capetto del gruppo, un ragazzino magro e atletico con l'aria da furbetto e i denti grossi e sporgenti, prese una pietra più grossa e la scagliò verso Remo con tutte e due le mani.
Cercò di scansarla, ma lo prese preciso sulla spalla, si piegò quasi di trenta gradi, pareva stesse per spezzarsi in due, ma non era ancora il momento.
Approfittò dell'occasione e raccolse il micio mettendosi a correre con tutta la velocità che sapeva verso la striscia d'asfalto che separava il fosso di Bastiano dalla campagna dei nonni.
Gli urlarono dietro qualcosa come «Ah San Francè, ma do vai? Tanto prima o poi di qui ci ricapiti, lo sai, e due pizze non te le leva nessuno! Corri lepre, corri, sennò ti ammazziamo di botte!», ma non ci badò, troppo concentrato sulla corsa.
Passò dalla rimessa degli attrezzi del nonno per prendere una scatola di cartone ed andò direttamente verso il piccolo spiazzo con i tre alberi di limoni stando ben attento a non farsi vedere.
Mise l'animale nella scatola; mentre entrambi cercavano a modo loro di calmarsi e normalizzare il battito del cuore riuscì ad osservarlo meglio: era bianco a chiazze nere, con un una macchietta sul mento che gli fece pensare al pizzetto di un moschettiere.
Non era brutto se non fosse stato per l'occhio infetto e le pulci incolonnate che gli percorrevano il pelo ancora rado.
S'interrogò a lungo sul da farsi, ma a sette anni non si hanno troppi margini di decisioni o opportunità autonome, se non quelle di venire istruiti, imboccati e condotti nel mondo degli adulti man mano che si cresce, sempre che lo si abbia, l'adulto.

Nessun commento:

Posta un commento