mercoledì 9 maggio 2012

Un nuovo motivo - Capitolo III (Conclusione)

E' passato un giorno.
Naturalmente sto ancora male, quando sono solo piango all'improvviso e non riesco a controllarmi. E' strano, ma sono anche felice.
Prima era come se vivessi un sogno, e nei sogni raramente riusciamo a fare quello che vogliamo, a volte non riusciamo nemmeno a parlare, a muoverci, e tutto ci passa davanti e ci avviene attorno e non riusciamo a fare niente.
Possiamo solo guardare.
Adesso sono sveglio. Mi ricordo il sogno che ho fatto, e sono felice perché non era reale, me l'ero creato da solo.
A pian piano riprendo contatto con la realtà, tocco la sveglia, mi guardo attorno, ricordo quello che ho fatto prima di mettermi a dormire.
E mi ricordo ancora l'incubo che ho fatto. Mi impegno con tutto me stesso per non dimenticarlo, per ricordarmi sempre che è finito.
Per ricordarmi che sono come mi voglio immaginare io, e non come lo fanno gli altri.
Davvero incredibile come alcuni incontri, brevissimi, incorniciati in un attimo, possano cambiarti... 

Un gruppo, riprendendo Jhon Lennon, cantava " I'm gonna start a revolution from my bed, Cause you said the brains I had went to my head"

Il III capitolo è finito. Si chiude la parte della macelleria. Da ora in poi i capitoli si alterneranno fra i due protagonisti, con Stefano che si muove un anno indietro rispetto a Remo. 




III CAP (Conclusione)



Un milione di pensieri diversi gli trafissero la testa nello stesso momento.
«Come farò a pagare il mutuo di casa? Perché? Denuncio quelli del generatore d'emergenza, cazzo. E i gatti? E la Sora Maria? Che faccio? Cazzocazzocazzo proprio a me...»
Il cuore gli batteva fortissimo.
Come quando da ragazzo andava all'università (che non finì), ed ogni tanto ai festini che frequentava, incontrava una ragazza diversa, che gli faceva girare la testa per davvero, che non pensasse di scoparsi e basta (ma tanto rovinava sempre tutto).
Non ci capiva niente come allora, ma gli faceva più paura.
Poteva chiudere. Poteva prendere baracca e burattini e cambiare aria.
Lasciare la macelleria, e la carne e i clienti e le droghe e la solitudine e tutto e cambiare e basta.
Non ne ebbe il coraggio, non ce l'ha quasi nessuno. Ma entrare nel retro bottega gli costò comunque tantissimo.
Chiuse la porta d'ingresso e il buio tornò di nuovo padrone della scena, la corrente non c'era ancora. Si muoveva a tentoni in nell'oscurità forzata, ma l'odore insostenibile di carne andata a male, lo istruiva su come muovere i passi.
E questi erano pesanti.
Ogni volta che alzava la suole delle scarpe dal pavimento ben pulito il giorno prima, gli sembrava che queste volessero rimanere incollate alla terra; agli umori appiccicosi e andati a male di quella mattina.
Ma non le stava ad ascoltare.
Prese due candele mezze consumate da sotto la cassa e le accese con lo zippo.
Aprì la cella frigorifera e la scena gli si svelò come un quadro visto dal di fuori.
Sul tavolo da lavoro in acciaio inossidabile , appesi ai ganci, avvolti dalla plastica, c'erano cento kg di carne fra manzo, maiale, cavallo... Scuri in superficie, gonfi e inerti.
Vomitò di nuovo. La bile gli sgorgò dalla bocca come un torrente, andando a macchiare la grata di scolo che era ancora lucida e brillante.
Si avvicinò barcollante al tavolo per controllare meglio la situazione.
Mentre si muoveva gli tremavano le ginocchia; si dovette accendere un'altra sigaretta, facendo scorrere il fumo direttamente dentro le narici per non vomitare di nuovo.
Si ricordò di un'illustrazione vista tanti anni prima, sul sussidiario delle elementari, che lo aveva colpito e affascinato tanto da diventare uno dei suoi incubi ricorrenti.
La scena era ambientata a Venezia nel periodo della peste; sotto un cielo terso, in mezzo alla laguna deserta c'era una chiatta piena di cadaveri riversi uno sopra l'altro come fossero 'niente', con le bocche piegate, le dita delle mani contratte in modo innaturale dalla malattia. Un medico vestito di nero e con la tipica maschera d'anatra li guardava sfilare dalla riva.
La carne, sotto la luce delle candele, la rifletteva in modo dolce.
Ne fu morbosamente attratto come quel quadro visto da bambino.
Aveva ancora i conati, la toccò con le dita. Sprofondarono indisturbate per tutta la loro lunghezza. Era morbida e malleabile.
Divenne triste.
Aveva mille motivi, ma non capiva bene quale lo avesse fatto passare dal panico alla tristezza in un secondo solo.
Era ancora con le dita affondate nel cuore del suo quadro personale, quando si accorse del contenitore per il ghiaccio abbandonato in un angolo della cella.
Di solito lo riempiva la sera e ci metteva tutto il reso della giornata, o le parti meno 'nobili' degli animali che avrebbe lavorato il giorno dopo per farne salsicce, macinato misto, hamburger e quel genere di cose del quale la gente non si accorge (o non vuole) con cosa siano davvero fatte.
La cassa era abbastanza grande, più o meno portava cinquanta kg. Dieci kg di ghiaccio, ne rimanevano quaranta di carne buona.
Per un attimo fu come se il sapore, l'odore nauseante e mielato, l'intima essenza di quello che una volta era vivo e che ora era morto per la seconda volta, gli si trasmettesse per le dita, gli risalisse le vene in senso contrario e si mischiasse a lui, diventando di due cose diverse, una sola.
Scelse di non buttare niente, di gettare invece quel poco che rimaneva di lui.
Per prima cosa selezionò con cura quello che fra il guasto andava scartato senza rimedio.
Ne fece una palla informe e la lasciò cadere sul pavimento. Questa si spanse e dilatò come un uovo al contatto con la padella piena di olio caldo.
Era pressapoco la metà, si aspettava di peggio. Adesso aveva cinquanta chili di carne mezza guasta sul banco di lavoro e quaranta di mezza buona nel contenitore. Iniziò a preparare i budelli per le salsicce, la vasca di metallo con le spezie per il macinato, il tritacarne a manovella. Se le mischiava per bene, se stava attento, se era bravo a bilanciare il buono col cattivo, avrebbe ottenuto novanta kg di carne 'nuova'; sarebbe stato come perdere solo il reso del sabato prima.
L'avrebbe caricata di spezie più del solito, e nessun cliente, nessuna casalinga attenta ai conti, nessun ragazzo tornato affamato dalla scuola o dal calcetto, se ne sarebbe accorto. Anzi, buona avrebbero pensato. Particolare.
Forse i gatti della Sora Maria, loro si, l'avrebbero capito.
Stava sudando, isterico. S'aggiunsero immediati lampi di follia: immaginò la folla di felini che andava fuori il negozio a miagolare per protesta; all'unisono come un concerto di archi rotti. Li aveva presi in giro, e anche se erano vecchi gatti senza nessun valore, meritavano rispetto perché la vecchia gli voleva bene. E lui che li prendeva a botte in testa, e uno ad uno li tirava su per la collottola e li metteva dentro un sacco di canapa per usare pure loro.
Sudava.
Prese il coltello più grande che aveva, lo affilò facendo stridere la lama, e iniziò a separare, dividere, spaccare la carne con gesti secchi, martellanti, colpo su colpo.
TUM. Via un pezzo. TUMTUM. Via un altro. TUMTUMTUM. Sempre più veloce. TUMTUMTUMTUM. Schizzi di sangue rappreso gli schizzarono in faccia, sul camice, i muri. TUMTUMTUMTUMTUM. Via, via tutto, non conta più niente. Via tutto il tempo del mondo. TUMTUMTUMTUMTUMTUM. Via la Sora Maria, via la morale, via i clienti, via la macelleria, via ogni sentimento, via anche suo padre. TUMTUMTUMTUMTUMTUMTUM.Via il presente, via all'improvviso anche il suo dito.
Il pollice staccato.
Cinque secondi di quiete prima che iniziasse a sanguinare.

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