mercoledì 2 maggio 2012

Un nuovo motivo - Capitolo II (conclusione)-

Scrivendo questo libro sto tirando fuori tutte le lacrime che mi erano rimaste.
Non pensavo, credevo di averlo superato, metabolizzato, ma portare di nuovo fuori certi ricordi fa male.
Sento l'assenza. Sento che mi manca qualcosa che potrei scriverci centomila pagine sopra senza riaverla più.
In più qui in Giappone, la vita dell'emigrante è scandita da incontri fulminei e partenze ravvicinate.

Ad ogni modo, ho finito il II capitolo.
Si spiega la lora amicizia.
Era davvero inimitabile.

Capitolo II - Conlusione


Antonello, da parte sua, non c'era mai stato così amico.
Erano troppo diversi, e d'altro canto non aveva un carattere con il continuo bisogno di un punto di riferimento come quello del Bianco.
Però anche loro erano cresciuti nello stesso quartiere popolare e nello stesso gruppo, si volevano un bene sincero.
Rideva mentre ricordava agli altri il giorno che era andato in comitiva, e senza dire niente a nessuno, si era presentato coi capelli rasta, e questi erano ancora così malfatti e gonfi che Renzo appena lo vide si piegò in due dalle risate e indicandolo col dito disse «Ahahahahah, sembri un Predator, meglio del film! Stai attento che se ti vede un jamaicano serio ti mena. RIDICOLO!» e Antonello gli aveva risposto «Sempre meglio che avere ciglia come le tue, che sono l'unione fra quelle di Elio e le storie tese e Shingo Tamai di 'Arrivano i Superboys'. BUFFONE!»
E poi si erano avvicinati petto a petto, sfidandosi come i bulletti di periferia che tanto bene conoscevano e tanto disprezzavano, prima di guardarsi negli occhi e mettersi a ridere dicendo insieme «PREDATOR!» «CARTONE ANIMATO!».
Anche quando Antonello, dopo essersi laureato tre anni fuori corso in lettere e filosofia, aveva deciso di prendere in affitto un piccolo locale a San Lorenzo e ricavarne un pub raggae, Renzo lo aveva appoggiato contro tutti col suo modo solito senza preconcetti «Antonè, se lo devi fare, fallo. Va bene. Ma fallo per te. Non perché ti devi dare il tono da artistoide per provarci tutte le sere ubriaco con le ragazze».
Ovviamente Antonello si ubriacava a mostro una sera si e una no, e si faceva tutte quelle che riusciva a fregare con lo sua parlantina da poeta mancato e con lo charme da proprietario di pub.
Una mattina si ricordava addirittura di essersi svegliato e non avere visto la plafoniera al lampadario. Pensava che il padre gliel'avesse tolta perché ultimamente stava esagerando troppo con la vita sregolata.
Invece era andato a casa di una ragazza e non se lo ricordava nemmeno, «E chi saresti tu? Ndò sta la plafoniera mia?!?» le disse quando la vide rientrare in accappatoio nella stanza.
Però si ricordava pure che all'inaugurazione Renzo aveva vinto la sua incurabile timidezza (due mesi e mezzo di giostre e cinema dal primo appuntamento al primo bacio con la ragazza) e gli aveva letto un discorso di incoraggiamento davanti ai suoi; e alla fine aveva anche cantato uno stornello pieno di prese in giro e parolacce scritto da Stefano, insieme a lui e al Bianco.
Stefano, già dai pensieri traballanti per via dell'alcol, parlava pochissimo, ed ogni tanto tratteneva da duro (che non era) le lacrime. Sapeva, e lo sapevano anche gli altri, che lui era il 50% della colla che li teneva uniti.
Due anni e mezzo prima aveva abbandonato il circondario sicuro del loro quartiere per trasferirsi vicino all'università in doppia con la ragazza, primo incosciente sognatore fra tutti ad andare a convivere
Era stato appena assunto come collaboratore esterno dalla facoltà (anche se era in tutto e per tutto il factotum del professore con il quale si era laureato nell'insegnamento dell'italiano a stranieri); ogni tanto faceva qualche supplenza di lingua agli studenti Erasmus e l'assistente agli esami, ma più che altro rispondeva alle domande sempre uguali che gli studenti mandavano al prof. ed andava ad incontrare gli insegnanti delle scuole pubbliche che volevano ospitare i tirocinanti dell'università al posto suo.
Tutto sommato non era un granché, anche se cercava di convincersi del contrario, e la paga era bassa; tanto che per pagare l'anticipo della nuova casa aveva iniziato a dare ripetizioni private a tre ragazzi di quindici anni svogliati e fattoncelli, che andavano male più per una protesta che non capivano nemmeno loro, che per limiti propri (gli dicevano che era per andare contro il sistema-scuola-omologante, ma Stefano aveva capito subito che era per metà fancazzismo, e per metà necessità di attirare l'attenzione dei genitori troppo presi da sé stessi da non accorgersi dei dolci tormenti della loro adolescenza).
Comunque con Antonello riusciva a vedersi spesso, il 'Predator Raggae Pub' era vicino casa sua, ma il Bianco era troppo pigro e senza soldi per guidare da un capo all'altro di Roma, e Renzo troppo impegnato col lavoro, la compagna, la palestra e il club di motociclisti.
Però una volta al mese Antonello chiudeva il pub, Renzo litigava un pò con la ragazza per uscire, il Bianco scroccava un passaggio e si ritrovavano a mangiare pasta da ottanta centesimi e riassumersi un mese di vita passati lontani, stretti stretti nella casa di studenti di Luna e Stefano, che il soggiorno non ce l'aveva perché il proprietario ricco e avaro  ne aveva ricavato un'altra stanza.
L'ultimo ricordo semi-lucido che lo attraversò prima di perdere i sensi e svegliarsi, senza capire come, nel proprio letto, fu la sua laurea un paio d'anni prima.
Aveva invitato chiunque: colleghi, vecchi amici, conoscenti con cui si andava a fare una birra ogni tanto.
Non sapeva chi sarebbe venuto, ma dava per certo che i suoi migliori amici non ci sarebbero stati. Li aveva sentiti qualche giorno prima, ed ognuno era perso e sommerso da impegni, lavoro e sveglie all'alba.
Non aveva avuto il bisogno di perdonarli, lo sapevano tutti e quattro senza dirselo che la loro amicizia superava le presenze 'obbligatorie' e i gesti dettati da 'se non lo fa, non è un amico'.
Non vennero nemmeno i suoi coinquilini. Altri impegni, più importanti, fuori.
Lui e Luna se ne stavano sul letto a mangiare patatine, bere vino del Todis e a sentire tutte le canzoni tristi che gli passavano per la testa, da Yellow dei Coldplay, Norwegian Woods, De André, Battisti.
Stefano faceva il simpatico e la prendeva in giro perché da quando erano andati a vivere insieme e cucinava lui, Luna aveva preso qualche chilo; lo faceva sempre quando era nervoso, sentiva il bisogno di fingere e di nascondersi, aveva paura di mostrarsi com'era davvero quando era triste. Le faceva il solletico e si sentiva un merda, lei lo capiva e assecondava.
Alle dieci e mezza suonò il citofono, e sotto c'erano Antonello, Renzo e il Bianco a cantare «Dottore, Dottore, Dottore del buco del cù...»
E poi, come quando un film finisce e dopo i titoli di coda c'è un'ultima scena, c'erano ancora loro a bere insieme, e a ricordare Renzo, e Renzo non c'era più. 


Nessun commento:

Posta un commento