sabato 26 maggio 2012

Un nuovo motivo - Cap. V (Continuo) -

Torno a postare. Forse voi non  avete nemmeno fatto caso all'assenza, ma a me è mancato moltissimo questa settimana.
Tokyo (e il Giappone tutto), purtroppo o per fortuna, è una città che non ti fa accorgere dello scorrere del tempo. E' bene e male. Il tempo passa discreto, ma passa, croce e delizia.
Ho provato a scrivere in ogni momento libero: sul bus, treno, pausa dal lavoro.
Ma il sonno ultimamente vince facile, la penna da leggera diventa pesante all'improvviso, e quando ti svegli sei di nuovo immerso nella vita.


Comunque Remo adesso sogna, e sogna forte.
Sogna diverso da voi, ma quanto può essere diverso un sogno? Tutti noi lo facciamo, ci riviviamo, immaginiamo e metabolizziamo così.
Quanto sono diversi i sogni di Remo dai vostri? Quante sono le cose che ci dimentichiamo per non volerle ricordare e nonostante tutto ci ritroviamo nell'ingorgo incosciente di quello che siamo, dei sogni che nemmeno volendo potremo mai cambiare...


Sole tre paginette, avrei voluto finire. Ma non sono tre pagine da buttare, e prima o poi finirò. Un abbraccio


CAPITOLO V (Continuo)


Ogni tanto riusciva a socchiudere gli occhi, gli sembrava di vedere qualcuno intorno a lui, di essere in movimento a gran velocità. Sentiva un gran frastuono dentro e fuori, non era sicuro se fosse realtà o stesse solo sognando. Gli accadde tre o quattro volte. Aprì e chiuse, persone; aprì e chiuse, rumore; aprì e chiuse, confusione, immagini e suoni impastati uno sull'altro. Aprì e chiuse, poi sognò davvero. 
Si rivide bambino a casa dei nonni in mezzo agli alberi di limoni.
Sua madre se ne era andata da poco, aveva sei o sette anni.
Il padre aveva troppo lavoro alla macelleria, troppo poco tempo per badare a lui.
O forse semplicemente troppa poca voglia. Remo passava il tempo a ciondolare per la campagna e a giocare a scopa col nonno sulla veranda.
Il padre si faceva vedere una volta a settimana la domenica per portarlo in sala giochi o a mangiare un gelato. Era come uno di quei padri separati part-time che si fanno vedere solo il fine settimana, solo che non lo era.
Per questo motivo non è che nutrisse tutto questo affetto per lui, e nemmeno per i nonni, almeno presi assieme: si erano sposati senza amarsi per convenienza nei primi del novecento. Erano tutti e due pugliesi, la nonna avrebbe voluto sposare un pittore spiantato (ma bellissimo, da quel che ne diceva)  che le aveva proposto di scappare assieme, ma non ne ebbe il coraggio, troppe malelingue nel paesino. Così finì per sposare nonno Antonio, il commerciante d'abiti col carretto, verso il quale non provava né stima né amore, ma serviva a coprire bene le apparenze della provincia del sud. Dopo due anni di buoni affari il carretto non bastò più ed emigrarono a Roma aprendo una bottega. Poi un'altra. Che non si amassero lo capiva anche un bambino come lui, più che altro per le bestemmie che il nonno le rivolgeva anche quando la mela cotta delle sei e mezza (la loro cena da diabetici) era troppo o troppo poco cotta.
Così preferiva stare per conto suo, passando la maggior parte del tempo a rotolarsi il mezzo all'erba e a salvare gli insetti che i suoi 'amici' di campagna si ingegnavano a catturare con trappole rudimentali per farli morire bruciati al sole.
Non capiva perché i suoi compagni di giochi dovessero divertirsi così, ed ogni volta che disinnescava quei marchingegni infantili e crudeli, i suoi 'amici' lo scoprivano e lo riempivano di schiaffi, o almeno così gli parve di sognare. Poi sognò un po' più forte, avvertì una fitta intensa alla mano e il sangue scorrergli dal naso.
Continuò.
C'erano questi ragazzini cresciuti come lui a metà strada fra la città e la campagna, indecisi su cosa essere o che strada prendere, che stavano tirando sassi a un gattino che si trovava nel fosso del 'Sor Bastiano', un vecchio bisbetico che non gli ridava mai la palla quando finiva dentro casa sua.
Il fosso era piccolo, profondo una decina di metri, soltanto un altro centinaio lo separava dalla strada. L'erba vi cresceva libera e indomata, pieno di ortiche, rovi, margherite, spine. Quasi impraticabile giocarci, se non quando si voleva catturare ad ogni costo la lucertola che ci si era andata a nascondere. Però erano diversi anni che resisteva all'avvicinarsi inarrestabile della città; tant'è che quel posto era diventato il ritrovo dei gatti e cani (a volte anche ricci) selvatici o abbandonati che dovevano partorire.
Avevano trovato questo gatto di pochi giorni senza madre né fratelli, era malato e miagolava stonato senza fermarsi.
Un occhio era gonfio e pieno di pus, a confronto con l'altro pareva una palla da baseball. Li vide da lontano, senza pensare si precipitò verso l'animale per proteggerlo, a quell'età gli sembrava semplicemente ingiusto che la bestiola fosse presa di mira solo perché era sola e diversa.
Ovviamente ci si rispecchiava, ma non lo capiva ancora.
Si mise in mezzo alla sassaiola e prese tutti i colpi al posto suo.
I ragazzini non si fermavano, per loro non era importante cosa colpire, l'importante era farlo, scacciare via l'ansia confusa scaricandola contro qualcosa che fosse più diverso rispetto a come si sentivano; che fosse un bambino o un gatto era indifferente.
Diverse pietre lo colpirono alle gambe e alla testa rompendogli gli occhiali (da quel giorno non li avrebbe più indossati).
Il capetto del gruppo, un ragazzino magro e atletico con l'aria da furbetto e i denti grossi e sporgenti, prese una pietra più grossa e la scagliò verso Remo con tutte e due le mani.
Cercò di scansarla, ma lo prese preciso sulla spalla, si piegò quasi di trenta gradi, pareva stesse per spezzarsi in due, ma non era ancora il momento.
Approfittò dell'occasione e raccolse il micio mettendosi a correre con tutta la velocità che sapeva verso la striscia d'asfalto che separava il fosso di Bastiano dalla campagna dei nonni.
Gli urlarono dietro qualcosa come «Ah San Francè, ma do vai? Tanto prima o poi di qui ci ricapiti, lo sai, e due pizze non te le leva nessuno! Corri lepre, corri, sennò ti ammazziamo di botte!», ma non ci badò, troppo concentrato sulla corsa.
Passò dalla rimessa degli attrezzi del nonno per prendere una scatola di cartone ed andò direttamente verso il piccolo spiazzo con i tre alberi di limoni stando ben attento a non farsi vedere.
Mise l'animale nella scatola; mentre entrambi cercavano a modo loro di calmarsi e normalizzare il battito del cuore riuscì ad osservarlo meglio: era bianco a chiazze nere, con un una macchietta sul mento che gli fece pensare al pizzetto di un moschettiere.
Non era brutto se non fosse stato per l'occhio infetto e le pulci incolonnate che gli percorrevano il pelo ancora rado.
S'interrogò a lungo sul da farsi, ma a sette anni non si hanno troppi margini di decisioni o opportunità autonome, se non quelle di venire istruiti, imboccati e condotti nel mondo degli adulti man mano che si cresce, sempre che lo si abbia, l'adulto.

mercoledì 16 maggio 2012

Un nuovo motivo -Cap.V (Inizio)-

Dunque... Oggi niente da segnalare. Sono stato al parco di Yoyogi 代々木公園。
Stavo per fatti miei, e intorno c'erano tante altre persone, ognuna con la sua vita, con chissà che sentimenti dentro... E ci godevamo tutti l'aria fresca che ci passava addosso, senza stare a pensare al dopo, o da dove parte il vento, o stronzate così...


Ho iniziato il V capitolo, procedo, ma lento. Quando mi metto d'impegno una pagina a ora, senza contare che poi la devo riscrivere al pc e poi rileggerla qualche volta. Però per il momento mi viene naturale. Anzi, mi sono proprio divertito :D Forse oggi ho voluto un pò bene a Remo per la prima volta.
E' rischioso perché ci sto spendendo un sacco di tempo. Ma ci credo. O almeno credo di provarci!
Leggete eh (l'altra volta mi ero sbagliato, il tastino per ricevere gli aggiornamenti c'è  solo da ora. E non è proprio un tastino, dovete mettere la vostra mail, ma è sicuro eh! Non è che vi arriva Vanna Marchi a casa, tranquilli :p)


CAPITOLO V (Inizio)


Non si accorse subito di quello che era accaduto, tant'è che continuò a battere colpi forsennati in preda al ritmo folle come niente fosse.
Poi il sangue sgorgò. Fu espulso dalla base del dito con una forza inaudita, sembrava non volesse più stare in quel posto e i globuli rossi che stavano dietro spingevano quelli davanti con tutte le loro energie. Non provava dolore.
Mollò il coltello, senza fare niente guardava tutta la vita che fluiva, schizzava via da lui e andava a finire sull'intreccio di carni martoriate. E queste erano ancora morte, non c'era dubbio, anzi, se possibile fino al momento prima lui le stava uccidendo una seconda volta, togliendogli quel minimo di dignità che gli restava.  Però vedendo la sua essenza solida, ciò che lo faceva respirare e tenere in piedi, posarsi rabbioso e senza controllo su quello che rimaneva della sua coscienza e sui resti di quelli che una volta erano animali fino a coprirli completamente donandogli un aspetto nuovo, lo fece sentire in estasi.
Forse era l'adrenalina, ma si sentiva vicinissimo alla 'verità', ad una comprensione che non sapeva di stare cercando.
I sensi andavano verso l'esterno, fuori da lui, e si stendevano al loro massimo per fondersi con l'ossigeno carico di odori, emozioni, storie passate; centimetro dopo centimetro.
C'erano quasi, c'era quasi, poi finì.
Tornarono dentro riavvolgendosi come un metro a scatto.
Provò un brivido, poi il dolore.
Le ginocchia lo tradirono di colpo e si piegò in due, cercò di mantenersi eretto appoggiando una mano al tavolo, ma era troppo scivoloso per via del sangue, la presa gli mancò e cadde di fianco sul pavimento sbattendo la tempia sinistra.
Adesso guardava la scena con una visuale obliqua, con la guancia in contatto col pavimento e gli occhi che si stavano per chiudere, fissi sulle gocce di sangue che gli scendevano sopra una dopo l'altra. La percezione era confusa, sbiadita, ma sapeva che se non si fosse tirato su in quel preciso momento non l'avrebbe più fatto. Si morse il labbro inferiore con gli incisivi fino a farsi male, cercava di non pensare al dolore alla mano e alle energie che lo stavano abbandonando.
Fece leva con la mano sinistra (quella sana) sul pavimento, e con un colpo di reni riuscì a mettersi seduto. Aveva il fiato corto e non contava di riuscire a rialzarsi. La testa gli diceva di rimanere così, fermo, inerte, che questa era la sua fine, che l'aveva scelta ed ora doveva solo starla ad aspettare. In fondo la sua era un'esistenza miserabile, non aveva combinato niente di buono, solo fughe da letti la mattina, raggiri, rapporti consumati con la fretta di dimenticare, compreso quello col padre.
Respirava sempre più piano, affannato come dopo una corsa lunga quarant'anni; le voci nella testa stavano pian piano battendo l'istinto di sopravvivenza.
Chiuse un occhio, lo faceva sempre prima di dormire: ne chiudeva prima uno e poi attendeva che l'altro lo seguisse di sua iniziativa, aveva da sempre paura del buio che arrivava quando li chiudeva assieme. L'altro era già a metà palpebra quando, per caso, si posò sull'orologio che teneva al polso; un'abitudine troppo radicata... Le otto e venti, dieci minuti e... «Dieci minuti e Maria arriva... Dieci minuti... Maria... Aò... Maria... Cazzo, Maria!»
Un raggio di lucidità tornò ad illuminarlo.
«Maria, Maria! A quella je se pja un colpo se non me vede. Almeno la devo avvertì che sto a morì!».
Tornarono anche le forze, poche e deboli, ma forse gli sarebbero bastate per trascinarsi fino in strada.
S'alzò. Stette ad aspettare di cadere di nuovo. Non cadde. Anzi. Si mise a correre verso l'uscita, non avrebbe mollato. Si rendeva conto che fino a quel momento la sua vita era uno schifo, peggio della mediocrità, ma voleva rimanere acceso finché l'avrebbe deciso lui.
Prima di varcare la soglia come una furia, scorse Maria che stava con la bocca aperta avvolta nello scialle nero, mentre lo guardava avvicinarsi spruzzando sangue ovunque. Senza smettere di correre disse «Sora Marì, io chiudo, addio. La carne andatela a comprà da Gigi, è più bona. Ve vojo bene, un abbraccio a Pallino, er Molla e tutta la truppa».
Adesso stava fuori. E il sole tornava a bruciare su di lui; era meno minaccioso. La botta d'adrenalina era scemata, si ritrovò in mezzo ad un incrocio della Prenestina, con le macchine che gli sfrecciavano ai lati e 'gli facevano il pelo', nemmeno se ne era reso conto.
Le persone dai marciapiedi lo indicavano, le signore si mettevano una mano davanti la bocca per lo sgomento e l'altra sugli occhi dei bambini per pietà.
Gli venne un pensiero stupido «Il mio momento di celebrità, il momento che Remo il macellaio muore in mezzo alla Prenestina senza un dito schiacciato da una macchina. Finirò sui giornali. La mia fine del mondo scritta su misura».
Poi una Fiat Panda, di quelle vecchissime, gli parve guidata da una ragazza magra coi capelli lunghi e neri, un viso Cleopatra, verso di lui senza possibilità si scansarsi, o di frenare lei.
Chiuse gli occhi, stavolta insieme.
Si senti spostato di peso, con violenza metallica, udì un botto frastornante.
Quando li riaprì era riverso sull'asfalto, vide delle piume bianche sospese nell'aria... Che fosse morto?
Ma le piume che c'entravano? Ammesso che il paradiso esistesse, non era posto per lui.
Senza volerlo gli si chiuse un occhio, e l'altro a seguire come al solito. 
Troppo pesanti.
Prima di svenire gli sembrò di vedere Cleopatra che urlando «Oddio Oddio» scendeva dal pandino, una gabbietta per uccelli rotta, una vespetta distrutta a qualche metro dalla macchina e un ragazzo che sorrideva steso dove doveva trovarsi lui, pure lui con gli occhi semi chiusi che lo fissavano. Credette di vedere pure una gallina che stava serena, impassibile in mezzo al traffico.
Ma era troppo assurdo. Buio.

lunedì 14 maggio 2012

Un nuovo motivo - Capitolo IV (CONCLUSIONE)

Sono giorni normali. Prendo quello che mi arriva e non cerco altro. Anche un pò felici, a volte. Per esempio quando qualche volta parlo giapponese senza pensarci e mi viene naturale, quando scrivo, quando sto con gli amici. Quello che non ho mi manca. Ma ora va davvero bene questa serenità semplice, prima devo finire quello che ho iniziato, sennò mi perdo e lo so.


A proposito. Un mese di libro e il blog, anche se non è commentato, ha superato le 500 visualizzazioni. Complimenti a noi tutti :)
Ah, su Facebook a volte la notifica del blog si perde, quando lo visitate, se volete, c'è il tastino per 'abbonarvi' (non costa niente eh :p), così vi arriva la mail rompicoglioni per comunicarvi che sono andato avanti.


Avanti ci sono andato. Ho finito il capitolo IV, Stefano saluta. Ma salutaper davvero. Poi il prossimo una bella rivoluzione, finisce e inizia tutto.
Spero vi divertiate a leggere :)


CAP IV-CONCLUSIONE-


La chiave girò nella serratura. Luna lo guardò accovacciato a terra a gridare, in mezzo alla cucina macchiata di caffè.
Si mosse senza parlare, mettendosi seduta accanto a lui che si nascondeva il viso fra le mani. Lo abbracciò leggera, rimasero così per un tempo che nemmeno lei riusciva a quantificare, gli carezzava i capelli sporchi e baciava le lacrime che gli sfuggivano dagli occhi e gli rigavano le guance.
Poi Stefano parlò a voce bassa, senza alzare le mani dalla faccia «Per me Renzo contava. Come te, come la vita che abbiamo. Era uno dei miei posti di sole. La telefonata spensierata di due minuti. Era qualcosa che c'era, che vedevo, che mi era amica. Basta cene accostati uno all'altro in corridoio, basta corse in mezzo al traffico per un caffè ed una presa in giro, basta tutto. E' finito il tempo, Lù. E' finito e nessuno mi aveva avvertito che sarebbe passato all'improvviso senza tornare.
Vorrei strapparmi i vestiti, i capelli, la pelle e tutta l'anima ed urlare fino a stare male. Ma non cambierebbe niente. Non so che fare».
Luna gli strinse forte le mani. Lei l'amore non lo sapeva spiegare nemmeno a sé stessa, però sapeva che c'era, che  le abitava dentro e che fra loro circolava. Non era brava a consolarlo, e la colpa era di Stefano: quando voleva stare male non ascoltava nessuno. Si aggrappò con tutta la sua forza ai sentimenti che aveva, gli chiese di superare i propri limiti; sentiva che era una cosa più grande di lei, ed era terrorizzata che tutto l'amore che gli girava attorno non bastasse e che si spegnesse come si stava spegnendo Stefano
«Amore... Non ci sono parole, non potrai mai trovare una consolazione, un motivo, per quello che è successo. Ma passeremo anche questo, te lo prometto. Ti sarò vicina sempre. Il tuo dolore non lo posso capire, ma capisco te. Ne usciremo insieme. E se cadrai mentre cerchi di rialzarti da questo colpo che t'ha portato via un pezzo, io cadrò con te, seguirò ogni tuo passo» 
Stefano sentì che il cuore si allontanava dal centro del corpo, che non era più con lui ed andava a perdersi da qualche parte distante del mondo.
«Lù, non ce la faccio. Non accetto che doveva andare così, senza una ragione. Mi sento svuotato, m''hanno portato via una cosa vitale che avevo messo via col tempo, accumulato anno dopo anno. Non può finire così, non deve! Non deve andare che adesso piango e mi ubriaco e facciamo l'amore e soffro e urlo e tiro pugni al vento, mi dimeno contro il destino infame e poi di nuovo come prima.
Perché lo so, e lo sai pure tu che fra un mese, un anno, abiteremo a casa nostra, con il lavoro, i film su internet, la pizza il sabato e dopo da Antonello. E dimenticheremo Renzo e questa disperazione facendo finta che non sia successo niente perché è così che va la vita»
Luna trattenne le lacrime, sapeva che doveva essere più forte di lui questa volta, altrimenti il loro cielo mezzo pieno gli sarebbe crollato sulla testa, ma le labbra le tremavano 
«Amore... ti prego... faremo tutto quello che c'è da fare, ma cerca di scuoterti. Hai ragione tu, la vita è questa, non la possiamo capire sempre. A volte dobbiamo solo aspettare e starla a guardare, anche quando fa male».
Stefano si tolse le mani dal volto, scoprì gli occhi e Luna perse il filo dei pensieri, fu risucchiata dal vuoto che sprigionavano. Le pareti di casa, la cucina strettissima dove stavano accoccolati si rimpicciolì, si strinse su di loro, e poi scomparve. E con lei le partite a scacchi a notte fonda; i concerti dei primi tempi, quando non avevano i soldi per i biglietti e scavalcavano ogni recinto; i post-it romantici la mattina, le carezze, le canzoni ed i disegni scritti sui muri della loro doppia con i colori a tempera.
Stefano concentrò il respiro, le parole si fecero attendere dei secondi lunghissimi prima di venire fuori «Io vado via».
Luna, sorprendendosi, rimase impassibile «E dove?»
«Non so. Però vado a cercare un senso a tutto questo. Credevo fosse qui, ma mi sbagliavo. Mi dicevo che andava bene, che quello che avevo mi bastava. Che tu il lavoro e gli amici eravate ciò di cui avevo bisogno, invece non è così. Mi sono preso in giro sin dall'inizio senza rendermene conto».
La risposta di Luna stavolta fu meno sicura, la voce usciva e si bloccava subito dopo.
«Amore... Stè, ti prego smettila. Tu parli così solo perché ora stai male... Non durerà per sempre, lo sai che è così... lo è per tutti...»
Le rispose in modo così freddo che ne fu spaventata, e non riuscì a non piangere. Non era abituata a quella parte di Stefano. Il suo ragazzo era emotivo, cazzone, serio, amichevole, odioso quando gli riusciva qualcosa di buono e se lo tirava per giorni. Freddo, inespressivo, mai.
«No Luna. Ci ho pensato tutto ieri e stamattina. Credo che Renzo se ne sia andato incazzato per le cose che voleva ancora fare e non potrà, però felice. Lui si, si è sempre ascoltato. Sai, la sera che ci siamo conosciuti mi ha rotto per ore: voleva farsi un giro sulla vespa, se ne era innamorato. Alla fine ho ceduto, alla prima curva scivola e mi rifà la fiancata... Quanto ha riso... Io ero nero, ma alla fine la sua risata m'ha contagiato... Da quando lo conosco non l'ho mai visto inseguire qualcosa che non desiderasse per davvero. Dalle cose semplici come un giro in vespa a quelle difficile come il mutuo con la ragazza. 
Le mie cose, invece, non sono volute, sono 'capitate'. E io me le faccio andare bene. Però penso che ci sia dell'altro da trovare, solo che il mio 'altro' è diverso da quello di Renzo. Lo voglio cercare prima di non tornare indietro pure io.»
Le emozioni di Luna scattarono all'unisono. Era una ragazza tranquilla, serena, con tanta voglia di amore, di darlo e riceverlo; le piaceva vivere così, semplicemente, ed era pura nel farlo. Quando però le accadeva qualcosa di inaspettato, che non prevedeva e non capiva perché dovesse andare ad intaccare le sue risposte chiare e semplici alle domande complicate della vita, provava un getto improvviso di adrenalina, balzava come un gatto. Si arrabbiava e passava all'attacco, difendeva con le unghie io suo territorio, ciò che per lei era importante.
«OHHHH! Ma che cazzo! Ti sei impazzito? Dove cazzo vuoi andare all'improvviso? Vuoi tornare in te? Morire è la cosa più NORMALE della vita. E tu adesso, per la normalità, molli tutto? Molli me? Ci siamo fatti in quattro per arrivare fino a qui, e adesso stop, chiuso, finito perché decidi che hai lo scazzo universale? Non funziona così, per niente!!! M'hai capito?!? E guardami cazzo!»
Era rossa in viso, lacrime e fiato corto.
«No. Sbagli. Mi sono rotto di vivere così. Di fare due lavori per arrivare a fine mese coi centesimi contati, di abbassare la testa coi prof. quando discriminano gli alunni migranti, di strisciare e leccare solo per aspettare un momento giusto che non arriva mai e lentamente perdermi dentro, fondermi con l'ordine delle cose, con le routine, fino a svegliarmi una mattina e non ricordarmi come diavolo mi chiamo io. SE sono ancora io o solo uno che è diventato parte dell'ingranaggio immobile e perfetto di sta cazzo di società dell'apparenza. Perché ti giuro, se continuo a dire 'si' alle cose che non mi piacciono, alle quali dovrei dire 'no' secco e inviarli tutti a cagare dicendogli quello che penso, alla fine mi convincerò che la risposta giusta è la loro, e che sorridere ipocrita e non fare niente di fronte alle cose ingiuste che ci passano davanti, sia davvero la cosa migliore. Qui non si tratta di morire all'improvviso, sono io che lentamente lo sto facendo da solo»
Poi furono botta e risposta velocissimi. Senza pensarci. Senza pensarsi.
«Basta basta basta! Parli come i ragazzini ai quali fai lezione, dovrebbe essere il contrario! Perché non ti basta quello che c'è adesso? Quello che puoi sentire, toccare, vedere; perché non ti basto io? Il senso è qui, dentro noi, non fuori!»
«Il tuo Luna, solo il tuo! Il tuo è questo e lo so! Tu ti guardavi allo specchio da bambina, e da grande ti vedevi così! Io no! Non così, non venduto per un pezzo di pane, così normalmente infelice come tutti gli altri!»
Le emozioni di tutti e due stavano facendosi sentire così forti da fargli girare la testa. A lei un pò di più.
«Che vuoi fare Stè? Che vuoi diventare? Dimmelo, lo facciamo insieme, come sempre, INSIEME»
Non gridavano più.
«No. Basta. Tu lo sai quello che vuoi fare. Sei perfetta. Tieniti stretta. Io vado a cercare quello che tu già sai. Se esiste anche per me non lo so, ma se nemmeno ci provo...»
Non finì la frase. Si mise i jeans sporchi, prese le chiavi della vespa e uscì di casa. Pareva stesse andando a fare la spesa come quando dopo aver fatto l'amore gli veniva fame. Invece se ne stava andando.
Luna perse tutte le parole e le energie per due minuti, centoventi secondi esatti. Poi il gatto in lei si svegliò di nuovo e gli corse dietro senza chiudere la porta. Centoventi secondi di troppo. Fece solo in tempo a vedere la vespa che si allontanava, la maglia con la scritta 'Don't look back in anger' e il portiere che gli correva dietro sgangherato con i cedolini dei condomini non pagati in mano.

venerdì 11 maggio 2012

Un nuovo motivo - Capitolo IV (un anno prima) INIZIO




Ieri sono andato bera una birra con gli amici. Oggi a vedere un incontro di Sumo al Tokyo Dome (bello, ma ho dormito metà del tempo, un pò noioso per due ore). Normale. Vita tranquilla. Mi piace questo tipo di serenità. Vivere le cose normalmente, come vengono, giorno per giorno, momento per momento, senza farsi film in testa. Mi ricordo come stavo qualche giorno fa, e mi manca. Ma so che esiste, e questo basta. E bastano pure le birre con gli amici e i panzoni che si menano. Ieri una mia amica, che mi conosce molto bene, m'ha detto che il mio problema più grande era che quando trovo la felicità, ne volevo cercare subito un'altra perché quella che ho non mi bastava mai. Ha ragione. Per fortuna, a volte, le persone sanno cambiare senza nemmeno ragionarci su, accade e basta.


Capitolo IV e torna Stefano. Mi piace scrivere di lui. Mi piace anche Remo. Ma è più oscuro, e quando ne scrivo sopra mi devo calare anche io in un umore, un'esperienza cattiva. E' divertente perché poi ci credo davvero e scrivo con veemenza senza pensarci. Però Stefano è più leggero, e per ora gli voglio più bene :p 
A tutti quelli che mi stanno supportanto va un grande "Grazie", se sta cosa la finirò, se riuscirò a diventare quello che mi immagino, sarà pure per merito vostro. Spero che anche voi facciate così con le vostre vite.




CAP IV (un anno prima)
Man mano che riprendeva familiarità con la sua stanza e con la realtà che viveva fuori la finestra, Stefano si rese conto di essere nudo sotto le lenzuola.
Forse aveva fatto l'amore con Luna, o forse si era spogliato in qualche delirio notturno. Non ricordava. Aveva una macchia sfocata al centro della memoria, e se strizzava gli occhi sforzandosi di ricordare, la testa gli doleva di più, come stesse lì lì per strapparsi in due come un foglio di carta. Rinunciò.
Presa la maglietta con la stampa 'Don't look back in anger' (Luna gliel' aveva regalata al concerto degli Oasis) da terra, s'infilò un paio di mutande pulite ed uscì. Percorreva il corridoio ondeggiando a destra e a sinistra come fosse sul ponte di una nave che imbarca acqua e sta per affondare. Sbatté prima il piede sul comodino abbandonato dal coinquilino in mezzo al corridoio qualche settimana prima (prendeva di continuo mobili mezzi rotti e fatiscenti lasciati fuori i cassonetti, ma finiva che non li usava mai e li lasciava dove capitava per casa. Comunque mai nella sua stanza); poi contro la porta di questo con la spalla. Gli scappò una mezza imprecazione, ma la bocca e la mente erano ancora impastati, non capì nemmeno lui cosa disse. All'interno si sentiva una musica inneggiante i rivoluzionari, forse cilena: gli era partita ancora la radio-sveglia e non l'aveva sentita. Lo faceva spesso da quando aveva iniziato un micro-spaccio fra i suoi amici per fumare gratis. Stefano all'inizio si era arrabbiato perché aveva paura che se i carabinieri lo avessero scoperto, anche lui ci sarebbe finito in mezzo: a diciotto anni lo avevano fermato assieme al Bianco ed Antonello con poco più di due canne in tasca, e dato che c'era pure Renzo, che non aveva mai fumato in vita sua, s'era preso la colpa per tutti.
Poi con Luna avevano deciso di prendersi casa da soli, e aveva lasciato perdere.
In qualche modo arrivò integro fino in cucina. Aveva un bisogno disperato di caffè, e di un'aspirina, ma per come si sentiva non sapeva nemmeno se sarebbe riuscito ad aprire il barattolo del caffè. La vide già sul fornello come un miraggio, con un post-it attaccato sopra.
«Amore, questa mattina sono dovuta andare a lavoro, non mi hanno dato il giorno. Ma esco prima, stiamo un po' insieme, ok? Così se vuoi ti sfoghi, o piangi, comunque ti sono vicina. Non preoccuparti per l'Uni, ho chiamato io il Prof. e gli ho spiegato la situazione, sei esonerato fino a dopodomani.
A proposito, t'ha chiamato il Bianco prima, il funerale è domani alle tre.
Ti ho lasciato la caffettiera già pronta, quando ti ubriachi la sera ti dimentichi come farlo, basta che accendi il gas.
Non fare cazzate mentre sono via.
Ps. Ti amo.»
Stefano staccò il messaggio e l'appoggiò vicino il lavandino, accese il gas e si mise a sedere sul tavolo del corridoio (in cucina non c'era, troppo piccola). S'accese una sigaretta e subito gli risalì la nausea. Continuò a fumarla nonostante il suo fisico non potesse palesemente sopportarla; non voleva stare senza fare niente fino a quando il caffè non fosse salito, altrimenti sapeva si sarebbe messo a pensare. Stava seduto a fumare sprofondato nel tavolo mentre con una mano si reggeva la testa e con l'altra la sigaretta. Da lontano gli parve di sentire le note di 'Imagine' di Jhon Lennon, solo che erano soffocate e gracchianti rispetto a come se le ricordava. Il cellulare stava squillando. Andò in camera, buttò all'aria i cuscini e le lenzuola per trovarlo. Lesse il nome sul display, 'Dario', suo fratello maggiore, dottore affermatissimo nel suo quartiere, laureato in tempo con centodieci, specializzazione, studio, casa con la moglie, tutto pagato da solo (a casa loro da bambini non si faceva la fame, ma non giravano nemmeno tanti soldi. Gli studi lui e il fratello se li erano pagati a metà con i genitori facendo ogni sorta di lavoretto), un uomo tutto d'un pezzo.
Si portavano cinque anni di differenza, e quando da ragazzi facevano a botte per la televisione o il motorino, Stefano le prendeva sempre; ancora non gli andava giù, però rispose. Aveva bisogno di una voce familiare, anche se sgradevole
 «Aò pischelletto! Come va a San Lorenzo? Sempre a fare il morto di fame tardo adolescente?»
«Un pò così... Ieri è morto Renzo»
«Oh caspita. Mi dispiace. Davvero. Ma Renzo era quello pelato o quello con i dread?»
Attaccò. Fece scivolare privo di forze il telefono dalla mano, facendolo cadere in terra. Ventotto anni che si conoscevano e non sapeva nemmeno quali fossero i suoi migliori amici. Forse in quel momento nessuna voce, a parte quella di Renzo, gli sarebbe bastata, ma avrebbe dovuto sapere che quella del fratello sarebbe stata fuori luogo in ogni caso; così abituata a parlare in modo forbito e ridondante ai pazienti, che nemmeno col fratello riusciva ad essere sé stesso (ma Stefano aveva da sempre il dubbio che esistesse davvero un altro Dario dietro quello fatto di apparenze). Si scosse: dalla cucina proveniva odore di bruciato, il caffè.
Rifece il corridoio all'indietro, ma era ancora mezzo ciucco e stordito, invece di prendere la moka per il manico l'afferrò per la base, si bruciò la mano e rovesciò il caffè su tutti i fornelli. Scagliò con rabbia la macchinetta contro il muro e dal petto gli esplose sonoro «Vaffanculo!»; s'appoggiò al muro con la schiena e lo percorse fino a trovarsi seduto per terra a piangere. Non capiva il perché. Più ci pensava più gli sembrava ingiusto. Perché a Renzo? Era da poco andato a vivere con la ragazza, era riuscito a farsi assumere a tempo indeterminato in uno studio di architetti, aveva una famiglia che lo adorava, e i suoi amici pure. Stava realizzando tutti i suoi sogni, che forse erano 'normali', ma comunque non facili da realizzare. E poi il bello di Renzo era proprio la normalità della persona, non banalità, proprio normalità; serenità nel vivere senza cercare quello che non c'è se non nella testa di chi lo cerca, come facevano lui, Antonello e il Bianco.

Di colpo la sua vita gli sembrò piena di limiti. Di minuti non pieni, sprecati.
Renzo era morto facendo ciò che desiderava. E  lui? Appena gli avevano offerto il contratto all'università aveva detto «Si», senza nemmeno pensarci. A lui, figlio di commercianti, di nessuno, laureato fuori corso, non pareva vero di poter accedere alla carriera accademica, a quel mondo che aveva conosciuto solo da studente subendone le angherie e il fascino. Ma era quello che voleva fare davvero? Ci aveva mai pensato tutte le volte che aveva abbassato la testa con i maestri, i presidi che discriminavano i bambini stranieri? Quando doveva leccare il culo ai docenti e andare a fare l'assistente gratis agli esami. Quando aveva preso casa con la ragazza per sentirsi normale, integrato pure lui?
Gridò. Fortissimo. «AHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHH».
La chiave girò nella serratura. Luna lo guardò accovacciato a terra a gridare, in mezzo alla cucina macchiata di caffè.

mercoledì 9 maggio 2012

Un nuovo motivo - Capitolo III (Conclusione)

E' passato un giorno.
Naturalmente sto ancora male, quando sono solo piango all'improvviso e non riesco a controllarmi. E' strano, ma sono anche felice.
Prima era come se vivessi un sogno, e nei sogni raramente riusciamo a fare quello che vogliamo, a volte non riusciamo nemmeno a parlare, a muoverci, e tutto ci passa davanti e ci avviene attorno e non riusciamo a fare niente.
Possiamo solo guardare.
Adesso sono sveglio. Mi ricordo il sogno che ho fatto, e sono felice perché non era reale, me l'ero creato da solo.
A pian piano riprendo contatto con la realtà, tocco la sveglia, mi guardo attorno, ricordo quello che ho fatto prima di mettermi a dormire.
E mi ricordo ancora l'incubo che ho fatto. Mi impegno con tutto me stesso per non dimenticarlo, per ricordarmi sempre che è finito.
Per ricordarmi che sono come mi voglio immaginare io, e non come lo fanno gli altri.
Davvero incredibile come alcuni incontri, brevissimi, incorniciati in un attimo, possano cambiarti... 

Un gruppo, riprendendo Jhon Lennon, cantava " I'm gonna start a revolution from my bed, Cause you said the brains I had went to my head"

Il III capitolo è finito. Si chiude la parte della macelleria. Da ora in poi i capitoli si alterneranno fra i due protagonisti, con Stefano che si muove un anno indietro rispetto a Remo. 




III CAP (Conclusione)



Un milione di pensieri diversi gli trafissero la testa nello stesso momento.
«Come farò a pagare il mutuo di casa? Perché? Denuncio quelli del generatore d'emergenza, cazzo. E i gatti? E la Sora Maria? Che faccio? Cazzocazzocazzo proprio a me...»
Il cuore gli batteva fortissimo.
Come quando da ragazzo andava all'università (che non finì), ed ogni tanto ai festini che frequentava, incontrava una ragazza diversa, che gli faceva girare la testa per davvero, che non pensasse di scoparsi e basta (ma tanto rovinava sempre tutto).
Non ci capiva niente come allora, ma gli faceva più paura.
Poteva chiudere. Poteva prendere baracca e burattini e cambiare aria.
Lasciare la macelleria, e la carne e i clienti e le droghe e la solitudine e tutto e cambiare e basta.
Non ne ebbe il coraggio, non ce l'ha quasi nessuno. Ma entrare nel retro bottega gli costò comunque tantissimo.
Chiuse la porta d'ingresso e il buio tornò di nuovo padrone della scena, la corrente non c'era ancora. Si muoveva a tentoni in nell'oscurità forzata, ma l'odore insostenibile di carne andata a male, lo istruiva su come muovere i passi.
E questi erano pesanti.
Ogni volta che alzava la suole delle scarpe dal pavimento ben pulito il giorno prima, gli sembrava che queste volessero rimanere incollate alla terra; agli umori appiccicosi e andati a male di quella mattina.
Ma non le stava ad ascoltare.
Prese due candele mezze consumate da sotto la cassa e le accese con lo zippo.
Aprì la cella frigorifera e la scena gli si svelò come un quadro visto dal di fuori.
Sul tavolo da lavoro in acciaio inossidabile , appesi ai ganci, avvolti dalla plastica, c'erano cento kg di carne fra manzo, maiale, cavallo... Scuri in superficie, gonfi e inerti.
Vomitò di nuovo. La bile gli sgorgò dalla bocca come un torrente, andando a macchiare la grata di scolo che era ancora lucida e brillante.
Si avvicinò barcollante al tavolo per controllare meglio la situazione.
Mentre si muoveva gli tremavano le ginocchia; si dovette accendere un'altra sigaretta, facendo scorrere il fumo direttamente dentro le narici per non vomitare di nuovo.
Si ricordò di un'illustrazione vista tanti anni prima, sul sussidiario delle elementari, che lo aveva colpito e affascinato tanto da diventare uno dei suoi incubi ricorrenti.
La scena era ambientata a Venezia nel periodo della peste; sotto un cielo terso, in mezzo alla laguna deserta c'era una chiatta piena di cadaveri riversi uno sopra l'altro come fossero 'niente', con le bocche piegate, le dita delle mani contratte in modo innaturale dalla malattia. Un medico vestito di nero e con la tipica maschera d'anatra li guardava sfilare dalla riva.
La carne, sotto la luce delle candele, la rifletteva in modo dolce.
Ne fu morbosamente attratto come quel quadro visto da bambino.
Aveva ancora i conati, la toccò con le dita. Sprofondarono indisturbate per tutta la loro lunghezza. Era morbida e malleabile.
Divenne triste.
Aveva mille motivi, ma non capiva bene quale lo avesse fatto passare dal panico alla tristezza in un secondo solo.
Era ancora con le dita affondate nel cuore del suo quadro personale, quando si accorse del contenitore per il ghiaccio abbandonato in un angolo della cella.
Di solito lo riempiva la sera e ci metteva tutto il reso della giornata, o le parti meno 'nobili' degli animali che avrebbe lavorato il giorno dopo per farne salsicce, macinato misto, hamburger e quel genere di cose del quale la gente non si accorge (o non vuole) con cosa siano davvero fatte.
La cassa era abbastanza grande, più o meno portava cinquanta kg. Dieci kg di ghiaccio, ne rimanevano quaranta di carne buona.
Per un attimo fu come se il sapore, l'odore nauseante e mielato, l'intima essenza di quello che una volta era vivo e che ora era morto per la seconda volta, gli si trasmettesse per le dita, gli risalisse le vene in senso contrario e si mischiasse a lui, diventando di due cose diverse, una sola.
Scelse di non buttare niente, di gettare invece quel poco che rimaneva di lui.
Per prima cosa selezionò con cura quello che fra il guasto andava scartato senza rimedio.
Ne fece una palla informe e la lasciò cadere sul pavimento. Questa si spanse e dilatò come un uovo al contatto con la padella piena di olio caldo.
Era pressapoco la metà, si aspettava di peggio. Adesso aveva cinquanta chili di carne mezza guasta sul banco di lavoro e quaranta di mezza buona nel contenitore. Iniziò a preparare i budelli per le salsicce, la vasca di metallo con le spezie per il macinato, il tritacarne a manovella. Se le mischiava per bene, se stava attento, se era bravo a bilanciare il buono col cattivo, avrebbe ottenuto novanta kg di carne 'nuova'; sarebbe stato come perdere solo il reso del sabato prima.
L'avrebbe caricata di spezie più del solito, e nessun cliente, nessuna casalinga attenta ai conti, nessun ragazzo tornato affamato dalla scuola o dal calcetto, se ne sarebbe accorto. Anzi, buona avrebbero pensato. Particolare.
Forse i gatti della Sora Maria, loro si, l'avrebbero capito.
Stava sudando, isterico. S'aggiunsero immediati lampi di follia: immaginò la folla di felini che andava fuori il negozio a miagolare per protesta; all'unisono come un concerto di archi rotti. Li aveva presi in giro, e anche se erano vecchi gatti senza nessun valore, meritavano rispetto perché la vecchia gli voleva bene. E lui che li prendeva a botte in testa, e uno ad uno li tirava su per la collottola e li metteva dentro un sacco di canapa per usare pure loro.
Sudava.
Prese il coltello più grande che aveva, lo affilò facendo stridere la lama, e iniziò a separare, dividere, spaccare la carne con gesti secchi, martellanti, colpo su colpo.
TUM. Via un pezzo. TUMTUM. Via un altro. TUMTUMTUM. Sempre più veloce. TUMTUMTUMTUM. Schizzi di sangue rappreso gli schizzarono in faccia, sul camice, i muri. TUMTUMTUMTUMTUM. Via, via tutto, non conta più niente. Via tutto il tempo del mondo. TUMTUMTUMTUMTUMTUM. Via la Sora Maria, via la morale, via i clienti, via la macelleria, via ogni sentimento, via anche suo padre. TUMTUMTUMTUMTUMTUMTUM.Via il presente, via all'improvviso anche il suo dito.
Il pollice staccato.
Cinque secondi di quiete prima che iniziasse a sanguinare.

sabato 5 maggio 2012

Un nuovo motivo - Capitolo III (inizio)

Ho scritto un altro pò. Scrivo sempre, a piccoli passi.
Torna Remo e si rivela il suo presagio.
E' difficile scrivere, è difficile perché è quello che vorrei fare davvero, ma noi cerchiamo sempre di andarci contro in tutti i modi.
Però, anche se Peppe dice che non dovrei dirlo, penso che me la cavo, e vorrei finirlo prima o poi.
Spero che voi vi divertiate a leggerlo, e che magari sia anche un piccolo incoraggiamento per seguire la vostra, di strada.
Quando leggo che qualcuno posta su Facebook (anche se mi sta aiutando a farmi conoscere) solo e soltanto vignette e roba presa da altri siti, mi dispiace sempre un pò. Ogni tanto va bene, ma va bene usare anche le nostre, di parole. Non c'è da aver paura di nessuno se non di noi stessi... :)


Cap. III

Gli sembrava che l'aria si fosse fatta immobile e pesante, impedendogli qualsiasi movimento come un gabbia che aderisce alla pelle.
Mentre guardava la serranda abbassata, si sentiva in trappola come un'animale allo zoo, senza via d'uscita. Non sapeva nemmeno se fosse accaduto 'realmente' qualcosa «Forse sono solo io che voglio sentirmi così» pensò,  ma la paura era così profonda e irragionata, che paradossalmente non poteva essersela creata da solo nella testa, e lo sapeva.
Estrasse una sigaretta dalla tasca e l'accese facendo saltare il coperchio dello zippo con l'indice e il medio, con la stizza e la sfida che aveva a diciotto anni, quando si sentiva unico e importante.
In cuor  suo però sperava che la sigaretta non finisse, e che quel momento di attesa si potesse protrarre all'infinito.
Invece questa ad ogni tiro s'accorciava, gli bruciava fra le dita e consumava il tempo. Un minuto. Due. Cinque. Le sette e trentasette ed era finita.
Fra poco meno di un'ora la Sora Maria sarebbe stata la sua prima cliente.
Mezzo chilo di macinato grasso per i gatti.
Remo glielo faceva trovare già incartato, ma lei si fermava comunque a parlare venti minuti buoni, raccontandogli cose che ormai aveva imparato a memoria.
Il marito tramviere morto trent'anni prima; quel giovane carabiniere, così bello, che le faceva il filo quando faceva la donna di servizio da ragazzina e che poteva essere l'amore della sua vita; i figli che aveva voluto far studiare a tutti i costi e che ora anche a Natale litigavano per decidere chi l'avrebbe dovuta ospitare.
E poi i gatti, che se pure andavano in calore e giravano quel poco di campagna tossica che rimane a Roma a cercar fortuna, tornavano sempre da lei per l'ora di cena: Pallino, Molla, Carota; gli stessi nomi degli amici di borgata che aveva da ragazza, anche lui ne conosceva qualcuno con il soprannome uguale.
Remo più che altro la guardava ed annuiva, «C'ha ragione a lamentarsi Sora Marì. I genitori danno tutto ai figli, questi se lo prendono pensando sia dovuto, e non ridanno niente. Apposta io non li voglio».
Però, quando gli porgeva il pacchetto da dietro il bancone, e sorridendo con una smorfia così maestosa e falsa che nemmeno il miglior attore da cinepattone, diceva «Torni presto eh. Che se non la vedo, oltre ai gatti me preoccupo pur'io», s'interrogava anche lui su che tipo di rapporto avesse avuto col padre prima che morisse. Ma tanto poi arrivava qualche cliente, c'era da tagliare la carne o rifare lo stock; quindi smetteva di pensarci fino a quando non l'avrebbe rivista il giorno dopo.
Forse anche per questo, se davvero, da un momento all'altro fosse scomparsa, un pò gli sarebbe dispiaciuto.
Pensava alla vecchietta, al papà, ai gatti e ai figli che a quarantatre anni non aveva, all'egoismo della sua solitudine; e intanto stava tirando su la saracinesca senza rendersene conto. 
Poi questa d'improvviso era aperta, e la barriera, il sottile velo che separava l'interno del negozio da quello che c'era fuori, si strappò in un sol colpo.
Il sole la invase, la illuminò da angolo ad angolo senza chiedere permesso.
Vacillò. Per poco non cadde sulle ginocchia.
Un odore, una puzza piena di dolore e di tristezza gli esplose nelle narici.
Poi si spinse fino allo stomaco, si mescolò al caffè e al fumo di sigaretta, facendolo vomitare senza dargli il tempo di trattenersi, sul tappetino con la scritta 'Benvenuti'.
Forse si era guastata la cella frigorifera, un black out, o un topo era andato a morire carbonizzato tra i fili dell'impianto elettrico.
Ma nel fine settimana la carne era andata TUTTA a male, non c'era modo di sbagliarsi.

Diario di un emigrante V

Torno a postare il diario e l'esperienza che si prova (che provo) all'estero.
Dietro il libro c'è una vita, e viceversa.
Tutto è legato, è sempre lo stesso. Per tutti.


Gli amici che sono qui da un bel pò di tempo me l'hanno ripetuto sin dall'inizio, ossessivamente, come un mantra.
«Le persone alle quali ti affezionerai qui, entreranno nella tua vita in punta di piedi, e la lasceranno in fretta, senza chiederti il permesso. Noi ci siamo creati una corazza, e lo devi fare anche tu. Se ci pensi impazzirai di lacrime e dolore. Non hai scelta. Se sei qui lo fai per te»
Forse è vero che non abbiamo scelta; continuare a vivere normalmente dopo ogni incontro e ogni partenza, lasciare che il tempo ci scivoli addosso e fare finta che non sia successo niente.
Ed è vero anche che se andiamo via dal paese nel quale siamo nati, lo facciamo per noi. Ognuno coi suoi motivi, ma per sé soltanto.
Di solito siamo attentissimi (o almeno dovremmo) nello scegliere le persone che ci accompagneranno, alle quali vogliamo davvero legarci per amicizia o per affetto.
E' una scelta così scrupolosa e ragionata, che quando qualcuno irrompe nella tua vita, abitudini, cose; in modo inaspettato e naturale, sovverte il modo di vedere le cose.
Ci capita che con loro torniamo un pò bambini, sinceri, e quando ci guardiamo allo specchio, ci sembriamo un pò più simili a quello che vorremmo essere.
La corazza cade.
Poi un aereo (che cosa banale), se li porta via.
E dopo anche i luoghi non sono più gli stessi.
La statua dove ti aspettava quel tuo amico stralunato davanti la stazione, il tetto di casa che acquista un senso particolare, perché una sera vi siete fermati tu e lei a fumare. Così normale e irripetibile...
Senza ritorno.
Fa male.

La strada di notte, vista dal tetto di casa mia


mercoledì 2 maggio 2012

Un nuovo motivo - Capitolo II (conclusione)-

Scrivendo questo libro sto tirando fuori tutte le lacrime che mi erano rimaste.
Non pensavo, credevo di averlo superato, metabolizzato, ma portare di nuovo fuori certi ricordi fa male.
Sento l'assenza. Sento che mi manca qualcosa che potrei scriverci centomila pagine sopra senza riaverla più.
In più qui in Giappone, la vita dell'emigrante è scandita da incontri fulminei e partenze ravvicinate.

Ad ogni modo, ho finito il II capitolo.
Si spiega la lora amicizia.
Era davvero inimitabile.

Capitolo II - Conlusione


Antonello, da parte sua, non c'era mai stato così amico.
Erano troppo diversi, e d'altro canto non aveva un carattere con il continuo bisogno di un punto di riferimento come quello del Bianco.
Però anche loro erano cresciuti nello stesso quartiere popolare e nello stesso gruppo, si volevano un bene sincero.
Rideva mentre ricordava agli altri il giorno che era andato in comitiva, e senza dire niente a nessuno, si era presentato coi capelli rasta, e questi erano ancora così malfatti e gonfi che Renzo appena lo vide si piegò in due dalle risate e indicandolo col dito disse «Ahahahahah, sembri un Predator, meglio del film! Stai attento che se ti vede un jamaicano serio ti mena. RIDICOLO!» e Antonello gli aveva risposto «Sempre meglio che avere ciglia come le tue, che sono l'unione fra quelle di Elio e le storie tese e Shingo Tamai di 'Arrivano i Superboys'. BUFFONE!»
E poi si erano avvicinati petto a petto, sfidandosi come i bulletti di periferia che tanto bene conoscevano e tanto disprezzavano, prima di guardarsi negli occhi e mettersi a ridere dicendo insieme «PREDATOR!» «CARTONE ANIMATO!».
Anche quando Antonello, dopo essersi laureato tre anni fuori corso in lettere e filosofia, aveva deciso di prendere in affitto un piccolo locale a San Lorenzo e ricavarne un pub raggae, Renzo lo aveva appoggiato contro tutti col suo modo solito senza preconcetti «Antonè, se lo devi fare, fallo. Va bene. Ma fallo per te. Non perché ti devi dare il tono da artistoide per provarci tutte le sere ubriaco con le ragazze».
Ovviamente Antonello si ubriacava a mostro una sera si e una no, e si faceva tutte quelle che riusciva a fregare con lo sua parlantina da poeta mancato e con lo charme da proprietario di pub.
Una mattina si ricordava addirittura di essersi svegliato e non avere visto la plafoniera al lampadario. Pensava che il padre gliel'avesse tolta perché ultimamente stava esagerando troppo con la vita sregolata.
Invece era andato a casa di una ragazza e non se lo ricordava nemmeno, «E chi saresti tu? Ndò sta la plafoniera mia?!?» le disse quando la vide rientrare in accappatoio nella stanza.
Però si ricordava pure che all'inaugurazione Renzo aveva vinto la sua incurabile timidezza (due mesi e mezzo di giostre e cinema dal primo appuntamento al primo bacio con la ragazza) e gli aveva letto un discorso di incoraggiamento davanti ai suoi; e alla fine aveva anche cantato uno stornello pieno di prese in giro e parolacce scritto da Stefano, insieme a lui e al Bianco.
Stefano, già dai pensieri traballanti per via dell'alcol, parlava pochissimo, ed ogni tanto tratteneva da duro (che non era) le lacrime. Sapeva, e lo sapevano anche gli altri, che lui era il 50% della colla che li teneva uniti.
Due anni e mezzo prima aveva abbandonato il circondario sicuro del loro quartiere per trasferirsi vicino all'università in doppia con la ragazza, primo incosciente sognatore fra tutti ad andare a convivere
Era stato appena assunto come collaboratore esterno dalla facoltà (anche se era in tutto e per tutto il factotum del professore con il quale si era laureato nell'insegnamento dell'italiano a stranieri); ogni tanto faceva qualche supplenza di lingua agli studenti Erasmus e l'assistente agli esami, ma più che altro rispondeva alle domande sempre uguali che gli studenti mandavano al prof. ed andava ad incontrare gli insegnanti delle scuole pubbliche che volevano ospitare i tirocinanti dell'università al posto suo.
Tutto sommato non era un granché, anche se cercava di convincersi del contrario, e la paga era bassa; tanto che per pagare l'anticipo della nuova casa aveva iniziato a dare ripetizioni private a tre ragazzi di quindici anni svogliati e fattoncelli, che andavano male più per una protesta che non capivano nemmeno loro, che per limiti propri (gli dicevano che era per andare contro il sistema-scuola-omologante, ma Stefano aveva capito subito che era per metà fancazzismo, e per metà necessità di attirare l'attenzione dei genitori troppo presi da sé stessi da non accorgersi dei dolci tormenti della loro adolescenza).
Comunque con Antonello riusciva a vedersi spesso, il 'Predator Raggae Pub' era vicino casa sua, ma il Bianco era troppo pigro e senza soldi per guidare da un capo all'altro di Roma, e Renzo troppo impegnato col lavoro, la compagna, la palestra e il club di motociclisti.
Però una volta al mese Antonello chiudeva il pub, Renzo litigava un pò con la ragazza per uscire, il Bianco scroccava un passaggio e si ritrovavano a mangiare pasta da ottanta centesimi e riassumersi un mese di vita passati lontani, stretti stretti nella casa di studenti di Luna e Stefano, che il soggiorno non ce l'aveva perché il proprietario ricco e avaro  ne aveva ricavato un'altra stanza.
L'ultimo ricordo semi-lucido che lo attraversò prima di perdere i sensi e svegliarsi, senza capire come, nel proprio letto, fu la sua laurea un paio d'anni prima.
Aveva invitato chiunque: colleghi, vecchi amici, conoscenti con cui si andava a fare una birra ogni tanto.
Non sapeva chi sarebbe venuto, ma dava per certo che i suoi migliori amici non ci sarebbero stati. Li aveva sentiti qualche giorno prima, ed ognuno era perso e sommerso da impegni, lavoro e sveglie all'alba.
Non aveva avuto il bisogno di perdonarli, lo sapevano tutti e quattro senza dirselo che la loro amicizia superava le presenze 'obbligatorie' e i gesti dettati da 'se non lo fa, non è un amico'.
Non vennero nemmeno i suoi coinquilini. Altri impegni, più importanti, fuori.
Lui e Luna se ne stavano sul letto a mangiare patatine, bere vino del Todis e a sentire tutte le canzoni tristi che gli passavano per la testa, da Yellow dei Coldplay, Norwegian Woods, De André, Battisti.
Stefano faceva il simpatico e la prendeva in giro perché da quando erano andati a vivere insieme e cucinava lui, Luna aveva preso qualche chilo; lo faceva sempre quando era nervoso, sentiva il bisogno di fingere e di nascondersi, aveva paura di mostrarsi com'era davvero quando era triste. Le faceva il solletico e si sentiva un merda, lei lo capiva e assecondava.
Alle dieci e mezza suonò il citofono, e sotto c'erano Antonello, Renzo e il Bianco a cantare «Dottore, Dottore, Dottore del buco del cù...»
E poi, come quando un film finisce e dopo i titoli di coda c'è un'ultima scena, c'erano ancora loro a bere insieme, e a ricordare Renzo, e Renzo non c'era più.